Rileggere il passato per riprogettare la politica estera 2

PARTE SECONDA: 1990 – 2018
In un precedente testo ho ricordato i paradigmi della nostra politica estera nella guerra fredda. Ma, col mutare dei tempi, essa è stata superata da nuove visioni più adeguate?

Dopo il 1990 riparte il processo di integrazione europea anche come contrappeso alle prospettive di riunificazione tedesca, ma riparte curiosamente sbilanciato verso il lato economico (Maastricht 1993) e in qualche modo governato da un asse privilegiato fra Parigi e Berlino. Gli stati dell’Europa Orientale, appena liberati dalla sudditanza a Mosca, vengono coinvolti in un percorso di avvicinamento ed entrano a farne parte nel 2004. L’Unione degli anni 2000, perciò, risulta condizionata da due miti non completamente razionali: l’orrore per la politica economica espansiva, scolpito nell’opinione pubblica tedesca dal ricordo della disastrosa inflazione di  Weimar – la russofobia dei “nanetti” centro orientali,  fatta di ricordi e di paure. I due fenomeni convergono e si sostengono l’un l’altro, finendo per garantire a Berlino un’assoluta egemonia nell’Unione.
Nel nuovo secolo, i fronti ideologici sono cambiati. Patria del socialismo contro America capitalista e guerrafondaia, Mondo Libero contro comunismo stalinista: ormai questi slogan suonano falsi da entrambi i lati della barricata. Invece, emerge prepotente un diverso contrasto fra due modi di rapportarsi al mondo: fede religiosa applicata come stile di vita contro laicità e relativismo. E naturalmente la visione religiosa applicata in politica difficilmente sfugge all’integralismo e l’integralismo postula l’inferiorità del diverso. E’ atteggiamento purtroppo abbastanza diffuso nel mondo musulmano, ma non solo: buddisti birmani verso rohingya musulmani, coloni ebrei ortodossi verso palestinesi, indù verso musulmani ad Ayodhya (dove gli induisti radicali distruggono nel 1992 una moschea plurisecolare, senza che in occidente si indigni nessuno per la perdita dell’opera d’arte). E nordovest e sudest del mondo vanno in direzioni diverse anche su un altro fronte: negli ultimi decenni, nelle società laiche dell’occidente le donne hanno conquistato sempre maggiori spazi di autonomia e di potere; diventa quindi ancor più plateale la differenza dalle società a impronta etica di matrice religiosa.

Fra noi del primo mondo, questi cambiamenti rivoluzionari avrebbero dovuto stimolare un riesame critico dei criteri di lettura del mondo che ci erano stati utili in altra epoca; invece hanno prevalso nettamente le persistenze. Ad esempio, potremmo sintetizzare grossolanamente così i sentimenti che hanno guidato fino ad oggi la politica estera statunitense: tutti i popoli desiderano la democrazia politica, basta liberarli dalle costrizioni imposte dai loro dittatori e si volgeranno ad essa, scegliendosi leaders amici dell’America – in ogni caso, la Russia è un nemico, anzi: IL nemico. Indipendentemente dai machiavellismi dei circoli governativi, importa sottolineare la sincerità di queste convinzioni nell’opinione pubblica americana. E ciò, in passato, ha reso difficile e impopolare, per la diplomazia, cambiar strada. Di fatto, non si riesce a concepire che, nei paesi poveri, vasti strati della popolazione possano liberamente dare il proprio sostegno a leaders poco attenti ai meccanismi della democrazia liberale, ma ben in grado di fare sperare, a torto o a ragioni, in una prospettiva di benessere e anche di riscatto della dignità nazionale. Riflettendoci, dovrebbe apparirci evidente che, nelle megalopoli del terzo mondo o nelle campagne profonde, il corretto pluripartitismo e la libertà di stampa non siano esattamente al vertice delle preoccupazioni della gran massa del popolo …. Così gli elettori, in piena libertà, si sono affidati al FIS islamico (Algeria ’91), ad Ahmadinejad per due volte in Iran, a Chavez e a Maduro per moltissime elezioni in Venezuela, ecc. I diseredati sono il gran serbatoio di consensi per personaggi discutibili come Morsi in Egitto ed Erdogan in Turchia. In Europa e Nordamerica si simpatizza con l’opposizione ad essi, in generale ben radicata nelle classi medie urbane e fra gli studenti, meno si considerano le ragioni degli abitanti delle favelas. Persino il nostro modo di affrontare il grande e pressante tema ambientale risente di questo strabismo. Capiamoci bene, ci dicono gli statisti del terzo mondo: voi avete costruito il vostro benessere sfruttando le risorse naturali, inquinando senza limiti, disperdendo gas serra – e ora ci dite di non fare noi lo stesso, di preservare le foreste, di contenere l’innalzamento della temperatura? Magari di restare perciò un po’ più poveri, mentre voi continuate ad usare i vostri condizionatori? Sarà un approccio demagogico, ma è difficile controbatterlo.

Abbiamo dunque vissuto alcuni decenni di drammatica differenza nella percezione della realtà politica fra l’opinione pubblica occidentale (soprattutto nordamericana) e quella del resto del mondo. Questo quadro spiega anche, in parte, l’eccezionale importanza che tutti noi abbiamo dato alla tragedia delle Torri Gemelle (2001). E’ stato un brutale risveglio: “perché ci odiano?” si chiese, quasi sorpreso, il Presidente Bush. La strategia di risposta degli Stati Uniti è stata condizionata dal pensiero politico predominante: se quei popoli, aizzati e indottrinati da regimi illiberali, sono schierati contro di noi, dobbiamo liberarli dai loro regimi, con tutti i mezzi, perché la nostra democrazia è un bene assoluto. In alcuni casi, c’è di più: quei dittatori sono anche criminali, che opprimono il proprio popolo, imprigionano e uccidono gli oppositori, minacciano i vicini con armi chimiche e batteriologiche. Dobbiamo dare il via ad un “intervento umanitario” per neutralizzarli.
In effetti questa strategia è stato posta in essere con due diverse modalità, potremmo dire hard e soft, a seconda che ci siano stati scontri armati o no. I casi hard sono noti a tutti: Somalia 1993, Afghanistan dal 2001 ad oggi, Iraq 1991 e poi dal 2003 ad oggi, in parte Libia 2011. A distanza di molti anni, possiamo ormai serenamente constatare che i risultati non sono stati raggiunti: in nessuno di questi paesi si è usciti dalla guerra civile, si è riformato uno stato funzionante, c’è vera democrazia. Tralasciamo il caso siriano, dove una vicenda complessa, nella quale non ci sono stati attori disinteressati, sta per concludersi col ritorno al punto di partenza, dopo infiniti lutti.
A partire dai primi anni 2000 sono state sostenute invece, con maggior successo, opposizioni inizialmente non violente che hanno dato luogo ad una serie di “rivoluzioni colorate” contro leaders anti occidentali, spesso vicini a Mosca: Serbia 2000, Georgia 2003, Ucraina 2004, Kirghizistan 2005 e molte altre di minor successo . Questi movimenti si sono ispirati alle teorie non violente di Gene Sharp e del suo Albert Einstein Institute e talvolta hanno ricevuto fondi di provenienza americana, in parte da fonti legate a George Soros. Bisogna dire che i regimi rovesciati erano in genere veramente autoritari, inefficaci, corrotti – non sempre però ciò che ne è emerso è stato inappuntabile: basta ricordare che in Georgia e Kirghizistan i nuovi regimi si legittimarono con elezioni che dettero loro un poco credibile 90% dei consensi. Tutto questo rende abbastanza divertenti le proteste negli USA per le campagne di influenza dei russi a favore di Trump …
Un ondata analoga ha investito i paesi arabi nel 2011 (“primavere arabe”), con risultati disuguali: transizione verso la democrazia in Tunisia, ricaduta in Egitto in regime autoritario, fallimento dello stato e guerra civile in Libia e nello Yemen, repressione in Bahrein.

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