Uscire dalla crisi. L’economia e la città: l’edilizia

Nessun settore dell’economia verrà esentato da crisi della domanda, tanto meno il settore delle costruzioni. Strano Paese, in cui l’edilizia è dipinta tradizionalmente come il fattore trainante, si costruisce a più non posso (soprattutto dove non posso) eppure è sempre descritta in crisi profonda.

Che non sia vero, è sotto gli occhi di tutti, o meglio tutti vedono lo scarto tra investimenti e profitti, tra pubblico e privato e tra necessità e realtà: queste ultime sarebbe bene iniziare a indicarle come bisogno e mercato. Altra distinzione che ne segue è tra edilizia e mercato immobiliare.

Eppure, proprio in questa crisi, per l’edilizia ci sono due ragioni di ottimismo se si tiene ferma la barra della ricostruzione del Paese.

La prima risiede nella necessità di procedere finalmente sulla strada delle manutenzioni del territorio, per ragioni ambientali, di salute pubblica, di innovazione nel modello di sviluppo.
La seconda si fonda sulla possibilità di un nuovo patto tra Stato (quello centrale e quello decentrato, le Regioni e i Comuni) e cittadini e imprese: la PA diventa per la prima volta un committente puntuale, salda i suoi arretrati, si attrezza per pagare i suoi debiti e così da un lato alimenta di risorse il sistema e dall’altro pretende (con tutto il rigore necessario) il pagamento di tasse e imposte con analoga puntualità.

Altro è il ragionamento sul mercato immobiliare. Alcune previsioni macro stimano perdite più limitate in valore, ma una riduzione del volume di attività. Come già avvenuto in fasi negative del recente passato, i privati proprietari probabilmente ridurranno la disponibilità a vendere, limitando così i cali di prezzo. Ci saranno però forti ridimensionamenti per alcune tendenze di questi ultimi anni: affitti brevi, grandi edifici per uffici ad alta densità di utilizzatori, spazi di co-working. Queste previsioni non fanno i conti con alcuni fattori di sistema.

Un primo fattore è che tutte le distorsioni prodotte dal feroce primato della rendita e dalla pervasività della finanziarizzazione dell’economia rimarranno a lungo: la vicenda milanese del terziario cresciuto ben oltre le necessità e da tempo vuoto; l’occupazione con sportelli bancari del piede degli edifici a partire dal centro cittadino che svuota intere aree dopo le 17, mentre le zone in  cui gli sportelli sono stati chiusi rimangono desertificate e degradate perché altre attività non riescono a subentrare dato il livello insostenibile degli affitti richiesti; il valore fuori mercato dei cespiti immobiliari postati a bilancio di banche, assicurazioni, imprese ed anche il valore atteso da proprietari privati grandi e piccoli: sono tutti fattori distorsivi che paralizzano l’attività economica e la possibilità di affrontare i bisogni residenziali quanto produttivi. Si chiamano fallimenti del mercato.

Il tema di rendere flessibile l’uso del patrimonio edilizio esistente acquista nuova urgenza: finora non è stata sufficiente la pressione sull’uso continuo e massiccio del territorio per avere politiche di riuso invece di nuove costruzioni. Oggi però stiamo con ogni probabilità evolvendo verso un sistema che richiederà minori concentrazioni di addetti per molte attività e minori dimensioni degli spazi costruiti ed attrezzati. Non enfatizzerei oltre misura: si tratta di processi di lungo periodo e nei tanti entusiasti cantori del lavoro agile o delle piccole dimensioni dell’agire individuale e collettivo noto singolari dimenticanze, del fatto che siamo davvero tanti (al mondo, in Italia, a Milano), che il lavoro in ufficio riguarda il 50% degli addetti, che la tanto apprezzata ricerca si fa in laboratori attrezzati e non nella cucina di casa, che la scuola – ad ogni livello – è anche socialità e rapporto diretto, che proprio la crisi delle mascherine ha indicato che c’è un limite nel far produrre merci “agli altri”. Quindi, giustissimo avere l’orizzonte dell’alleggerimento, prezioso sapere che se ne parla nel tempo lungo.

Ad ogni buon conto, ripensare il costruito, rendere possibile, facile, economico il riutilizzo del costruito per nuove risposte al bisogno di abitazioni, studiare le forme per rendere economicamente conveniente la rifunzionalizzazione anche di intere aree della città. Meglio ancora, rivedere in questa chiave alcuni grandi progetti di sviluppo  e riqualificazione urbana, per verificarne il peso e la convenienza alla luce delle trasformazioni del mercato. Alcuni temi, dai grandi centri commerciali al nuovo stadio (al posto) di San Siro e in generale le strutture sportive – sono sicuramente figli di una fase che sta alle nostre spalle. Allo stesso procedimento di revisione vanno sottoposte le strutture pubbliche, molte delle quali – le scuole innanzitutto – hanno certamente necessità di manutenzioni straordinarie (straordinarissime, se si potesse dire) ma in non pochi casi andrebbero ripensate alla luce di nuove o trascurate esigenze sociali e collettive ma anche in considerazione di modalità innovative di svolgere le stesse attività. Non c’è dubbio, ad esempio, che le innovazioni didattiche prodotte dalla digitalizzazione dei processi formativi implicano non tanto un “tutti a casa invece che a scuola” (anche qui, singolari dimenticanze e distrazioni sul carattere sociale e collettivo dei processi formativi ed educativi) quanto una diversa concezione ed utilizzo degli spazi. Spazi che possono essere riutilizzati, ove possibile e ragionevole messi sul mercato, resi moderni e salubri: mi vien da dire, tanto lavoro per non breve tempo.