Rileggere il passato per riprogettare la politica estera.

PARTE PRIMA : 1950 – 1990

L’opinione pubblica italiana pensa alla politica estera con limitato interesse e la politica vi si applica con un certo pigro conformismo, ripetendo stancamente i concetti tradizionali. Usiamo guardare il mondo con gli schemi degli anni ’50, superati almeno da trent’anni: il mondo libero, i due blocchi, la solidarietà occidentale….  Nel frattempo, il baricentro del mondo, economico, demografico e ormai anche militare, si è spostato dall’Atlantico al Pacifico. La quota degli USA sul Pil mondiale è scesa a meno del 25%: il mondo è diventato multipolare, non ci sarà più un centro di decisione e regolazione in grado di “dirigere il traffico”. Le scelte di Trump, elefante in cristalleria, hanno almeno questo, di positivo: ci dovrebbero costringere ad un brusco risveglio. Nel futuro gli attori significativi nelle relazioni internazionali non potranno che avere dimensioni “continentali”: gli Usa, la Cina, la Russia, il Brasile …. e naturalmente l’Europa. Ma la costruzione europea di oggi,  il meccanismo dell’Unione Europea, non è una risposta: non ha politica estera e, nel quadro politico e normative attuale, non può avere l’autorevolezza e la coesione necessaria per darsela. Europa sì, dunque, ma radicalmente nuova.

Per costruire e proporre una politica estera efficace serve però chiarezza concettuale, una consapevolezza diffusa che deve partire dalla rilettura oggettiva di decenni di relazioni internazionali.  Alla fine della seconda guerra mondiale, il prestigio degli Stati Uniti presso tutti i popoli del mondo era, giustamente, altissimo. Gli USA erano la patria della libertà, erano il grande amico d’oltreoceano che aveva sconfitto le dittature fasciste e il militarismo giapponese, verso di loro si aveva un forte e giustificato sentimento di riconoscenza. Con il piano Marshall, stavano aiutando l’Europa occidentale a riprendersi dalla povertà indotta dalla guerra. Nel Terzo mondo (fra gli arabi, ad esempio), gli americani erano quegli occidentali che rifiutavano l’approccio colonialista delle vecchie potenze e accompagnavano i popoli giovani verso un futuro di indipendenza. L’atmosfera di libertà della vita americana, lo stile di vita americano veicolato dai media, gli standard di consumo americani, erano i modelli positivi per le nuove generazioni in Europa, in Asia e Africa, forse un po’ meno solo in America Latina.
L’altro grande modello, la patria del socialismo, l’Unione Sovietica, era indubbiamente meno affascinante per chi non avesse un forte orientamento ideologico; e del resto, in pochi anni, si manifestavano tutti i suoi limiti: la mancanza di libertà, lo sviluppo frenato, il conformismo intellettuale imperante, e si scoprivano i crimini dello stalinismo e l’oppressione in Europa Orientale. La North Atlantic Treaty Organization, invece che un’alleanza militare come le altre, per noi europei era la lega dei popoli liberi, lo scudo contro la prepotenza dei tiranni di Mosca.
Questa visione ha costituito gli “occhiali” con cui diverse generazioni di politici hanno interpretato il mondo: America uguale “i nostri”, il  Mondo Libero; avversari dell’America uguale “i cattivi” o almeno quelli “che avevano esaurito la spinta propulsiva”.  Io stesso, per decine di anni, ho condiviso questa visione con convinzione.

Però, già allora non tutti la pensavano così. Charles De Gaulle, leader della Francia che non si era arresa ai nazisti, era un indiscutibile antifascista e anticomunista, un generale con tendenze conservatrici e autoritarie. Eppure aveva colto, e rifiutato, l’asimmetria dell’alleanza occidentale, il fatto che nella NATO uno decideva e gli altri si allineavano. Perciò, nel 1966, decise l’uscita della Francia dal dispositivo militare dell’alleanza, lo sviluppo autonomo della potenza nucleare francese, la dottrina di difesa “tous azimuts”. E già parlava di uno spazio europeo “dall’Atlantico agli Urali”.
Gli Stati Uniti sono un grande e complesso paese. Non sempre nel loro governo ha prevalso lo spirito democratico della Costituzione, talvolta sono state più forti le lobbies, la voce del complesso “militar-industriale”, come disse lo stesso Presidente repubblicano Eisenhower. E perciò, della posizione di enorme vantaggio psicologico di cui godeva, l’America fece spesso cattivo e prepotente uso, interferendo nei governi di paesi amici fino ad organizzare in parte e finanziare numerosi colpi di stato: es. 1953 Iran, 1954 Guatemala, 1963 Rep. Dominicana, 1965 Indonesia, e molti altri, in maggiore o minor misura. (Naturalmente non bisogna dimenticare altre vicende in cui invece gli Stati Uniti hanno usato la propria influenza a favore del processo democratico). Nell’opinione pubblica europea la guerra nel Vietnam ed il colpo di stato in Cile del 1973 contro Allende, sostenuto dalla CIA, hanno deteriorato molto il capitale di simpatia di cui godeva l’America. Ma molto si perdonava, in politica, vista la perdurante minaccia del blocco sovietico che, pur nel declino, mostrava ancora elementi di aggressività (Afghanistan 1978).

Dopo il 1980, abbiamo visto un cambio di paradigma, c’è stata una rottura nella storia politica e culturale del ‘900. E’ il momento dell’arrivo al potere di Thatcher e Reagan, ma è soprattutto la data convenzionale della svolta con cui l’atmosfera intellettuale passa dal privilegiare i valori socialisti di giustizia sociale e solidarietà al mettere al primo posto i valori individuali: competitività, meritocrazia, affermazione del sé. Nelle teorizzazioni politiche, la svolta sfocia nel predominio del neoliberismo nei paesi anglosassoni e nella sua variante nordeuropea, ordoliberalismo ed economia sociale di mercato. Di fronte a tutto questo, le forze socialdemocratiche non sono riuscite ad elaborare una proposta alternativa convincente.
Con la fine del decennio, l’implosione del blocco sovietico cambia completamente la configurazione geopolitica del mondo. Lo schema bipolare non c’è più, o meglio, non c’è più uno dei blocchi, la stessa Unione Sovietica si frantuma in molti piccoli stati, la Russia entra in un decennio di confusione e debolezza. Fukuyama teorizza la “fine della storia” attraverso la definitiva prevalenza della democrazia liberale: “i buoni” hanno vinto. Però, mentre cambia la geopolitica, non cambiano gli strumenti e i sentimenti con cui la leggiamo. In effetti, se “i buoni” hanno sbaragliato gli avversari, a questo punto tutti dovrebbero diventare “buoni”. Perché continuare a privilegiare emotivamente un attore sugli altri? E, se la spada del nemico si è frantumata, a cosa ci dovrebbe più servire lo scudo? Ma il pensiero politico nei primi anni ’90 non trae queste conclusioni.

SEGUE