Dalla rottamazione al governo del cambiamento

La ricerca del consenso è un elemento centrale per tutti i regimi democratici. Il politico è un “commerciante di voti”, per dirla con Schumpeter, per essere eletto deve fare delle promesse che cercherà poi in qualche modo di soddisfare.

La democrazia rappresentativa sopravvive fino a quando esiste un certo grado di concorrenza fra partiti e candidati. Il presupposto è che tutti i politici fanno promesse più o meno realizzabili e che il cittadino elettore sappia scegliere il candidato con il più giusto equilibrio fra quelle realizzabili e quelle meno. Purtroppo le cose non vanno esattamente così, perché i meccanismi di scelta dell’elettore sono un po’ più complessi. Innanzitutto, il cittadino non è mai completamente informato su tutti i programmi di tutti i partiti e candidati. Inoltre, altri importanti fattori entrano in gioco nel determinare la sua scelta: la sua appartenenza politica, ma anche quella sociale e familiare. Un ruolo spesso trascurato è, infine, quello delle emozioni che, spesso, gioca un ruolo altrettanto importante. I partiti hanno svolto, per tutto il Novecento, un ruolo importante nell’organizzazione del consenso e nella selezione dei gruppi dirigenti. Negli ultimi anni, la diffusione dei media e dei social network associata all’indebolimento delle appartenenze sociali tradizionali ha indebolito i partiti e ha modificato profondamente la comunicazione politica, favorendo la personalizzazione della politica e dando maggiore spazio a quella forma di leadership basata su una demagogia deteriore di sollecitazione degli “elementi emozionali” delle persone. La crisi del 2008 ha, inoltre, accentuato la crisi di un modello di benessere diffuso nelle democrazie occidentali portando sulla scena politica in vari paesi europei partiti di protesta di orientamento populista che hanno fatto della semplificazione del linguaggio la cifra della propria comunicazione. Spesso la comunicazione demagogica è appannaggio dei partiti all’opposizione, ma, in realtà, anche le forze di governo ne fanno un uso massiccio. In Italia, in questo primo anno di “governo del cambiamento” assistiamo esterefatti ad un (ab)uso sistematico di slogan (“prima gli italiani, “la manovra del popolo”, e cosi via) la cui finalità è quella di mistificare la realtà. Va detto, per onestà intellettuale, che in Italia, già negli anni precedenti, altre leadership, anche di governo, hanno utilizzato modalità comunicative simili, dal “milione di posti di lavoro” al “meno tasse per tutti” fino a “L’Italia cambia verso”, la “buona scuola” e cosi via. L’elemento interessante, e preoccupante a mio avviso, è l’escalation in corso verso le emozioni più basiche (insicurezza e identitarie) della comunicazione politica. Vent’anni fa gli slogan prevalenti evocavano la felicità pubblica: si pensi al miracolo berlusconiano o all’I care veltroniano. Non mancava, certamente, lo schema amico-nemico, sempre utile per cementare un blocco politico, i “comunisti” per Berlusconi e il “berlusconismo” per la sinistra. Ma certamente, si trattava di una comunicazione politica razional/sentimentale. Negli anni più recenti, sui quali ha giocato un ruolo anche la crisi economica mondiale, assistiamo, invece, a una comunicazione politica in cui l’elemento emotivo prende il sopravvento su quello razionale. La paura sovrasta la speranza, il linguaggio elementare, meglio se anche un po’ sgrammaticato, sostituisce quello colto, i post su facebook archiviano definitivamente la discussione politica.

2 thoughts on “Dalla rottamazione al governo del cambiamento

  1. L’analisi è corretta e condivisa in buona parte. Io ho un solo dubbio: se domani eleggessimo in Italia la miglior classe politica degli ultimi 2000 anni, un gruppo di demiurghi insomma, riuscirebbe quel gruppo ad incidere sulle dinamiche rilevanti che oggi deprimono la società italiana? Voglio dire, la politica nazionale ha le leve per edificare una nuova società più giusta e più equa? E’ solo una questione di selezione avversa del personale addetto oppure il fallimento della politica tradizionale, che osserviamo anche su scenari diversi da quello nostrano, è prodotto da una ineluttabile condizione di inconsistenza dei poteri che essi rappresentano?
    Fammi sapere, mi interessa la tua opinione

    1. Caro Marco,
      condivido le tue osservazioni. Penso anch’io che il tema sia sistemico e non individuale, ovvero il problema non è solo la “degenerazione” di una classe politica che agita emozioni, ma soprattutto quello di un sistema sociale e comunicativo che esige questo tipo di comunicazione. Va da sé, non era però l’oggetto del mio intervento, che il ruolo della politica tradizionale, con il venir meno, di fatto, del ruolo degli stati nazionali, e quindi della politica, diventa sempre più marginale rispetto alle logiche economiche sovranazionali. Su questo tema, concordo, c’è molto su cui riflettere e discutere.

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