Un nuovo inizio per i Democratici

I militanti del PD si stanno dividendo tra Remain e Leave. C’è il rammarico (che condivido) per i percorsi comuni che si interrompono, c’è la tentazione di incolpare l’uomo nero di turno (ieri D’Alema, oggi Renzi). Ma se alziamo lo sguardo dall’interno del partito alla società italiana nel suo complesso, la separazione

sembrerà meno bizzarra, anzi forse quasi necessaria e perciò inevitabile. I vincoli, le regole, i compiti da fare entusiasmano pochi, alcuni li accettano, altri si ribellano. A metà degli anni 2000, dopo un decennio difficile, soffiava da destra un vento di insofferenza, ben espresso dalla figura di Berlusconi con la sua carica di allegra indisciplina. Come resistergli? Unendo tutte le forze disponibili, chiamando a raccolta tutte le persone serie e responsabili, qualunque fosse il loro stato sociale e la loro posizione nella distribuzione del potere – del resto, le grandi ideologie avevano ormai perso la loro carica divisiva. Questo, di fatto, è stato il PD di Veltroni, che eleggeva fianco a fianco l’operaio della Thyssen e il padroncino veneto, purché entrambi pagassero le tasse.

Non è stato un successo, diciamocelo. O meglio, è stato un successo difensivo: senza PD poteva andare molto peggio, nel 2011 siamo stati ad un passo da un’evoluzione argentina. Però i ritmi di sviluppo dell’Italia sono insoddisfacenti, in economia perdiamo competitività, siamo così poco attrattivi per i giovani che la classe dirigente del futuro preferisce emigrare, avrei difficoltà ad indicare nostre aree di eccellenza.

Molto è dipeso dalla crisi mondiale del 2008. Gli squilibri della globalizzazione non regolata esistevano già, in potenza, ma la crisi li ha tradotti in effetti molto diversi per diverse aree sociali. Anche gli orientamenti sociopolitici si sono frammentati. C’è chi non vede più spazio nel sistema, si estrania con l’astensione dal voto e dalla politica oppure urla “vaffa”. Ci sono gli eredi del berlusconismo peggiore, ai quali interessa solo che la loro fetta della torta sia ricca e al diavolo tutti gli altri. C’è chi il cammino dello sviluppo lo vorrebbe riprendere sì, ma cambiando molto, con riforme radicali e redistribuzione del potere. C’è anche chi in fondo non sta troppo male economicamente e non ha disagi poi così gravi. Le ultime due aree votavano per il PD, un tempo, poi pian piano abbiamo finito per rappresentare quasi solo i soddisfatti – le mappe elettorali son lì a dimostrarlo. Un vero paradosso, mi pare.

Inutile parlare di “leggi elettorali”, invocare il proporzionale, o demonizzarlo. È il paese che, nei fatti, non è più quello del 2008, il bipolarismo proprio non c’è più, il partito del “ma anche” non è più uno strumento adeguato. Le linee di frattura non sono quelle del 2007 (il pericolo di “tornare ai DS” proprio non esiste) ma sono nette. Nel 2019 ad essere finito non è il partito di Renzi, è finito il partito di Veltroni. Renzi ne ha tirato le conseguenze, politicamente non c’è nulla da rimproverargli: c’è un’area sociale da rappresentare e loro, correttamente, si candidano a farlo.

Noi, piuttosto, siamo in grado proporci credibilmente a rappresentare un ceto, un atteggiamento psicologico, un’area sociale? Ad essere davvero “riformisti” (quelli che dicono di esserlo non lo sono affatto, non scherziamo)? Ci vuole un nuovo inizio. C’è un tema di costume interno (il “non detto” non deve più avere cittadinanza fra noi) ma c’è soprattutto un tema di contenuti: dobbiamo fare nostre le battaglie giuste a favore del cittadino e contro i piccoli e grandi poteri costituiti (solo due esempi a caso: pendolari vs. Ferrovie, legge per la class action).

Se vogliamo essere il partito delle riforme contro l’establishment, senza ambiguità, però, dobbiamo essere conseguenti: siamo sicuri di doverci rallegrare che le figure simboliche legate al passato, come Luca Lotti o Andrea Marcucci, abbiano deciso di restare con noi? Nulla di personale, ma c’è una questione di credibilità che non mi pare eludibile.