30 anni dopo la Bolognina (prima parte)

30 anni sono moltissimi. Il problema vero è la qualità di questi 30 anni, la grande quantità di fatti che si sono verificati e i cambiamenti che hanno prodotto.
  1. La questione non è solo e nemmeno tanto il passare del tempo: 30 anni sono moltissimi in assoluto, la metà o poco meno della vita di quanti erano nel pieno del loro vigore intellettuale e della loro passione politica al finire degli anni 80. Il problema vero è la qualità di questi 30 anni, la grande quantità di fatti che si sono verificati e i cambiamenti che hanno prodotto. Il panorama sociale, economico, politico della fine degli anni 80 non trova oggi alcun elemento di aggancio, quasi nulla di quanto si vede oggi poteva essere anticipato o previsto.
  2. Miliardi di persone sono usciti dalla soglia di povertà: essa rimane, pesa e morde, ma è diminuita. L’equilibrio del terrore aveva stabilizzato il confronto internazionale tra le due potenze: atomico, terrorizzante, ma equilibrio e solo pochi, ben circoscritti, focolai di guerra. Le istituzioni sovranazionali Onu e UE godevano di un più che discreto prestigio e capacità di intervento: oggi sono inesistenti o comunque inefficaci. Il pianeta sembra in preda a convulsioni non controllabili: emigrazioni di massa, guerre quasi endemiche, nessuna potenza riesce più non dico a controllare il proprio campo ma nemmeno ad esprimere una direzione di marcia. Anzi: le due grandi potenze sono rimaste una, ce n’è un’altra insospettabile 30 anni fa almeno nelle sue attuali dimensioni, un certo numero di aspiranti potenze regionali sono alla ricerca di uno spazio e di un ruolo. L’ambiente è deteriorato da una impronta umana sempre più devastante: malgrado l’importante movimento dei giovanissimi in tutto il mondo (altra novità enorme), non  si riesce ancora a dire che il problema dell’inquinamento e del riscaldamento globale non è un problema del pianeta (che di suo è del tutto indifferente, cammina lo stesso anche se si sciolgono i ghiacci e non gli interessa né se Venezia va sott’acqua né se spariscono le api) ma del genere umano, al quale sì che interessano Venezia e le api. Nelle società sviluppate sono aumentate le distanze tra ricchi e poveri (non solo di denaro ma di possibilità, di conoscenza, di prospettive), frutto di un capitalismo spoliatore (ma è bene farsi venire il sospetto che la nostra magnifica età del welfare era pagata anche dalla povertà del mondo). La grande speranza del socialismo, seriamente compromessa nel 1956 e ancora nel 1968 e poi ancora nel 1980, è franata sotto le macerie dei sistemi statuali che ne erano nati.
  3. Certo, il socialismo non coincide con quei sistemi statuali ma aveva paradossalmente ragione Brezhnev e torto Berlinguer perché quello era il socialismo reale nel senso che era l’unica realtà (statuale) esistente: le altre erano idee e progetti, pregevoli quanto si vuole ma non ancora chiamati alla prova dei fatti. Il fatto che ancora mancava era la possibilità di un cambiamento di quegli stati e di quelle società: Gorbaciov è stato il capitolo finale e il fatto che ci fosse un solido schieramento occidentale che al di là delle parole (belle e vuote) lavorava per il crollo dell’Urss non diminuisce il peso di quel fallimento.
  4. La fine dei paesi socialisti non era la fine del PCI e non solo perché la fine del PCI è stata votata ben prima. La originalità del PCI poteva – questo sì – produrre un continuo processo di cambiamento e di rinnovamento, perché sulla linea di partenza ne aveva le capacità. E il problema allora diventa un tema di storia contemporanea e non un problema della o per la politica di oggi. E comunque si divide in due strade distinte.
  5. Perché il cambiamento è stato quello proposto da Occhetto e non quello di chi a esso si oppose? La questione non si risolve dando ciascuno ragione a sé stesso o con l’uso di categorie nemmeno buone per un comizio (come se la lotta politica possa basarsi sulla categoria della colpa soggettiva: qui continua ad esserci il nucleo solido dello stalinismo, per cui ci sono colpevoli e nemici, sabotaggio e tradimento) ma guardando senza pietà sia alla leggerezza delle categorie usate (il blocco del sistema politico, l’evoluzione della democrazia dell’alternanza, la contaminazione e via dicendo), buone appunto in una società che iniziava a sfibrarsi, per il lungo attardarsi in uno scenario economico asfittico, in uno scenario sociale di conseguenza in netto rallentamento, in uno scenario politico congelato nel lungo inverno del post DC – troppo grande per esaurirsi, troppo vecchia per cambiare, troppo condizionata dai mille legami della sua storia, in un quadro mondiale talmente in equilibrio da essere immobile. E poi, guardare alla debolezza di una opposizione alla svolta divisa a sua volta e non sulla tattica da seguire (nel 1989 ma soprattutto nel 1991 con la nascita di Rifondazione comunista) ma su aspetti non secondari di teoria politica e sociale – non solo il nodo dell’Urss, più noto e visibile a livello di massa. La debolezza dell’epoca che mi interessa e che mi riguarda è quella di aver intuito alcune direzioni di marcia, che erano quelle dell’ultimo Berlinguer e che sul Manifesto ha ricordato Aldo Tortorella qualche giorno fa (pacifismo, ecologismo, femminismo della differenza, tensioni della trasformazione tecnologica, una nuova critica del capitalismo, la rifondazione etica della politica e dei partiti), ma di non essere stati in grado di costruire una tattica ed una strategia adeguate, di suscitare un dibattito nel Paese di ampiezza ben al di là di settori già conosciuti e frequentati. (Segue la seconda parte dell’articolo in data 11 dicembre)