50 anni del funerale delle vittime di Piazza Fontana

Si è detto e letto quasi tutto, nel 50° anniversario della strage di Piazza Fontana e va certamente sottolineato che ci siano stati non pochi passi avanti nella condivisone delle interpretazioni sui dati essenziali.


É già molto, se pensiamo alle complicità, distorsioni, coperture, connivenze e via dicendo, accumulate dentro e fuori dai processi che in numero abnorme e con tempi inaccettabili in qualsiasi consorzio civile hanno accompagnato questi 50 anni. E all’uso politico che fin dall’inizio ha inquinato pesantemente la ricerca della verità, la realizzazione delle istanze di giustizia e la consapevolezza comune dei fatti di quella enorme tragedia.

            (quasi una nota: è inutile aggiungere aggettivi ai 50 anni, perché un tempo così lungo è inevitabilmente denso e pieno di cose tra loro contrastanti. Nell’epoca dell’eterno presente  e della vita media così lunga abbiamo smarrito la capacità di distinguere tra la storia e la   cronaca, tra la percezione individuale e il significato generale. In più, troppi dei protagonisti  sono rimasti alla ripetizione del gioco delle parti: semmai, va detto con piacere che queste sono rimaste marginali)

            Sarebbe stato opportuno (ed auspicabile) qualche autocritica, da giornali e da (eredi veri o     presunti di molti dei) partiti dell’epoca, perché vennero creati mostri, montate campagne di stampa, compiuti atti politici e amministrativi. Nessuno ha fatto queste cose? Nessuna     responsabilità da indicare o – per quella correttezza che viene invocata ad ogni passo – da    assumere su di sé? Il Corriere della Sera (anche con la sua appendice pomeridiana del         Corriere di Informazione), la Rai, i governi e molti di quelli che ne facevano parte: c’è molto             spazio per migliorare e molte cose da dire e da fare e sarà necessario anche fare in modo      che si lasci campo alla ricerca storica, depurando – per così dire – dal peso della politica    quotidiana fatti e avvenimenti meglio inquadrabili in una prospettiva (azzardo!) scientifica.

Viva, forte e presente mi pare invece la necessità (e la utilità) di ricordare la Piazza del Duomo dei funerali, il 15 dicembre 1969. Una mattina plumbea, livida, occupata in ogni angolo da un silenzio quasi irreale. Una nebbia bagnata, di goccioline in sospensione nell’aria, quella scighèra milanese che oggi non c’è più, fisicamente scomparsa (l’ambiente di una volta per fortuna non c’è più), un lutto anche dell’atmosfera.

E volti. Migliaia e migliaia, una quantità mai più vista a Milano per circostanze simili, in silenzio ma espressivi più di mille comizi. Quei volti, quella presenza dicevano poche ma     forti e decisive parole. Dicevano che avevano capito, senza bisogno di processi, di arringhe,  malgrado e anzi contro la canea scatenata fin dai primi minuti dallo scoppio. Ciò che avevano capito non era sul piano della giustizia – questa sì aveva e ha bisogno di prove e procedure anche se nemmeno queste possono prevalere se non vengono rotte le connivenze e le coperture, se non vengono a galla le responsabilità. Ciò che avevano capito   era sul piano della verità, quella storica, quella politica, quella morale.

            (quasi una seconda nota: che poi, per fare il semplice passaggio dalla responsabilità di alti gradi dell’Esercito, dei Carabinieri e dei Servizi alla responsabilità come minimo per mancata vigilanza da parte dei ministri responsabili di Interni, Difesa, Presidente del Consiglio non serve una laurea in giurisprudenza e nemmeno un giudizio di tribunale: bastava e basta un pizzico, solo un pizzico di intelligenza e di senso delle responsabilità)

            Era su questo piano che quella piazza prometteva a quelle vittime e a sé stessa – ed era ciò    che essa poteva fare per onorarne il ricordo e rispettare il dolore dei parenti – che avrebbe       mantenuto impegno e determinazione per reagire a prossimi e futuri (purtroppo            immaginabili) assalti alla democrazia ed alla convivenza civile.Oggi si usa dire “la Milano democratica”, “le persone”, “i cittadini”: ed è giusto, c’era la prima, partecipavano le seconde e riempivano la piazza i terzi. 50 anni dopo, quando sembra prevalere la cosiddetta antipolitica, è forte la spinta qualunquistica, è esile la capacità di rappresentanza dei partiti, è bene ricordare che innanzitutto in quella piazza erano i lavoratori milanesi, della città e della provincia, delle fabbriche e degli uffici, ricordare che fu il prodotto di uno sciopero generale, voluto e proclamato. Va detto per rendere giustizia a chi è stato protagonista di quelle giornate per averle decise, dirette e organizzate – da un lato – e per averle rese possibili – dall’altro – con una partecipazione commossa e determinata. Chi era lì – e faceva le migliaia e migliaia – sapeva bene perché c’era e perché ci sarebbe tornato. Tanti cittadini che esprimevano cordoglio, tanti giovani susciti dalle scuole e dalle università trasformavano quella piazza in un segno di alleanza popolare mai vista prima. Questa maturazione collettiva fu un processo che fece nascere anche realtà e consapevolezze nuove: i giornalisti democratici, gli avvocati, categorie che fino a quel momento non avevano mai assunto un ruolo sociale protagonista, anche per consolidate tradizioni di separatezza professionale, quasi castale, diventano antenne sensibili dell’intera società, vanno oltre il ruolo segnato dalla professione per diventare parte significativa di una anima critica generale. Ma anche questi processi si intendono se si collocano nella velocissima e profonda trasformazione di ruoli, presenze, funzioni che la svolta impressa dalla urgenza e dalla drammaticità della situazione impone.

            Ma non si può non vedere che probabilmente ben poco – o comunque assai meno di    quanto poi è successo – si sarebbe verificato se non ci fosse stata una grande forza, unitaria e di massa, in grado di assicurare che una parte ampia e attiva del popolo nel suo senso            migliore avrebbe dato sostegno e vigore alla lotta che si annunciava. In altri tempi e con altri linguaggi si sarebbe detto che una classe generale si era messa in moto per un obiettivo di salvezza e di prospettiva generale.

Abbiamo già usato l’espressione “alleanza popolare”: la ampiezza delle forze in campo, la loro articolazione, il loro pluralismo – culturale, sociale, politico – erano la prova materiale di una egemonia democratica che si proponeva come guida e modello dell’intero Paese.

            La risposta di Milano è un patrimonio della città e dell’Italia, e il merito va ai suoi cittadini,     alle sue istituzioni, ai suoi partiti, ai suoi sindacati (in ordine rigorosamente alfabetico).             Utilizzerò, rovesciandolo, uno slogan di oggi: prima l’Italia, contro i suoi nemici, che non     erano pochi, non certo deboli e nemmeno tutti italiani. Milano antifascista, perché le         bombe erano fasciste, perché esecutori e mandanti di primo livello erano fascisti, perché la        nostra democrazia è antifascista: come ha detto il Presidente Mattarella, antifascismo è il         senso esplicito e implicito della nostra Repubblica e della nostra Costituzione.Scrivo in una sala adornata da fotografie: una è presa sul palco di un 25 Aprile in Piazza del Duomo 35 anni fa. Nilde Jotti, Tino Casali, Aldo Aniasi, Luigi Granelli sono i volti più noti e riconoscibili su quel palco. La folla che ascolta le loro parole è fatta da tanti che erano in quella stessa piazza in quella livida mattina di dicembre.

            Avremmo poi visto quelle facce – e per fortuna anche quelle dei loro figli e poi dei loro nipoti – in molti momenti successivi. La storia non si ripete: quel che si può e si deve ripetere è invece la forza e la determinazione democratica, da ieri e per il futuro.