Fase 2: Milano ricomincia cambiando.

Avviare la ripresa si fa progettando il cambiamento facendo leva su quelle pubbliche per sollecitare quelle private.

Il Comune di Milano sta assumendo una serie di decisioni importanti in vista della ripresa delle attività e lo sta facendo con un approccio molto giusto, tenendo in equilibrio esigenze e problemi che confliggono tra di loro.

Non ha ragione chi, con l’aria di farsi paladino delle esigenze della economia, mette in secondo piano gli aspetti rilevanti che proprio la crisi ha sottolineato, anche agli occhi di chi aveva fatto proprio il credo del primato dell’impresa e della “creazione di valore per gli azionisti”. I toni unilaterali portano alle disfatte attuali: troppo facile sarebbe il confronto con tanti  momenti di discussione del passato proprio sulle strategie di politica sanitaria, sulla centralità degli ospedali, su equilibri tra pubblico e privato tali solo sulla carta e nelle dichiarazioni di chi poi sulla sanità privata prosperava, individualmente e collettivamente. Il virus sembra aver spianato queste vicende: resta il rammarico profondo del costo umano, sociale ed economico di tutto ciò. Quanto alle responsabilità, la parola sarà agli elettori quando sarà il momento.

Veniamo all’oggi e all’immediato domani. Si imposta e si attrezza la riapertura dei cantieri di lavori pubblici e per le infrastrutture a Milano, con la progressività e la prudenza di chi sa che allentare e superare il  blocco è un fattore di rischio che non ci si può permettere, che le condizioni di lavoro devono guardare alla sicurezza di chi lo svolge e che la ripresa economica non solo di singole imprese ma delle collettività sono interessi fondamentali quanto quelli della salute pubblica. Si deduce da quanto già i giornali pubblicano che queste preoccupazioni sono la base da cui il Comune sta (ri)partendo. Già questo fatto segna un punto importante: ripartire non è fissare una data ma impostare, attuare e governare una metodologia e una programmazione.

Le date saranno il risultato della valutazione epidemiologica, delle previsioni su farmaci e vaccini, della situazione delle strutture sanitarie (ospedali e reti territoriali), delle valutazioni delle condizioni di lavoratori e imprese.

Si è detto programmazione: questo è il punto focale, perché è esattamente il punto nel quale i poteri pubblici – e qui sì la politica – devono esercitare il loro ruolo. Programmazione infatti è prima di ogni altra cosa la considerazione dei valori in gioco, delle scelte di priorità, delle condizioni e delle modalità con le quali si svolge l’attività economica e sociale, la valutazione delle risorse necessarie, dei loro flussi e delle modalità con le quali vengono effettivamente impiegate.

Se di “modello Milano” si può parlare, forse è proprio in questa prospettiva. Queste settimane, nelle quali ci auguriamo tutti inizi ad allentarsi la morsa dell’emergenza e della pressione sulle strutture sanitarie, possono essere dedicate a impostare i programmi di ripresa, nel campo dei servizi sociali ed alle persone come nel campo delle infrastrutture pubbliche e collettive. Certo, Governo e Parlamento, UE e Regioni fanno e faranno la loro parte nel definire obiettivi, regole e strumenti: può il Comune di Milano attendere, può trincerarsi dietro la attribuzione delle competenze, può limitarsi a contrattare qualche euro in più? Domande evidentemente retoriche.

Si può – si deve – fare ben di più e cose diverse. Si può lavorare al piano di manutenzione straordinaria delle strutture scolastiche (sempre lamentato come necessità e come impedito da scarsità di risorse), della viabilità ordinaria (che stavamo riscoprendo come problema, le buche non sono solo a Roma), al piano di rifacimento delle case popolari (se continua a lungo la quarantena dobbiamo prepararci a tanti episodi di aspra tensione) e poi ad un vero programma di formazione e di educazione a distanza (che nel lungo periodo implica risparmio di strutture scolastiche, comunque da ripensare nella tipologia) come trasformazione e non come surrogato, a nuove strategie e strutture per una rete di presidi sanitari diffusi, fino al ridisegno di luoghi e strutture per la fruizione pubblica e di massa della cultura, dello spettacolo, dello sport (praticato e visto: forse si può chiudere così, semplicemente e rapidamente, la partita dello stadio). Progettare cose nuove e nuovi modi di vivere nella e con la città: riapriamo i ristoranti ma di soli ristoranti non si vive.

Avviare la ripresa si fa progettando il cambiamento con forme e modalità partecipative vere, chiedendo risorse sulla base di questo lavoro, facendo leva su quelle pubbliche per sollecitare quelle private. Milano deve ambire a contribuire alla rinascita nazionale non tanto “chiedendo” (poteri, risorse, ruoli: sarebbe velleitarismo inconcludente, buono per qualche titolo sui giornali, magari con polemiche e/o lamentazioni) ma “offrendo” progettualità, modelli di vita individuale e collettiva che si sperimentano, modi di governare. Un solo e finale esempio: invece di lamentare il peso della burocrazia, si può proporre da Milano un insieme di regole ripensate e ridisegnate per gli appalti pubblici, per la contabilità degli enti, per la semplificazione amministrativa? Questo vale tanto quanto l’emergenza sanitaria, anche perché produrrebbe i suoi effetti sulla gestione delle politiche della salute, sull’uso delle risorse, sulla forza della vita economica e produttiva.