Milano e l’emergenza

Come Milano è entrata nella crisi, cosa sarebbe stato necessario per preparare una nuova stagione e qualche proposta per il futuro, che è adesso!

Sgomberiamo il campo da aspetti che nessuna persona di buon senso e in buona fede può negare: il Covid 19 ha preso tutti di sorpresa e quasi nessuno era pronto a farvi fronte. Per la verità, gli studiosi avevano previsto il rischio di pandemie come dato immanente al sistema, perché autorevoli voci avevano levato l’allarme (Bill Gates, Obama) e i piani di emergenza sono un obbligo di legge anche in Italia. Però gli studiosi vengono presi sul serio solo a disastro avvenuto, le voci di allarme non sono diventate azioni concrete (Gates ha “solo” i soldi ma Obama aveva il potere!), i piani di emergenza evidentemente funzionano solo a Singapore (malino), in Corea del Sud e a Taiwan molto meglio.

Milano non poteva fare eccezione, dunque, e le azioni messe in campo all’inizio non potevano che scontarne il prezzo. Peraltro, scopriamo adesso che il virus era in circolazione da ben prima del mitico “paziente zero” di Codogno e questo dovrebbe tacitare sia i supercritici nostrani sia gli avventurosi denunciatori della Cina (armi di politica estera e finanziaria mondiale, altra cosa).

Ricostruendo i passaggi dal 20 febbraio ad oggi, risulta chiaro l’asse delle decisioni del Comune: sul piano sanitario riconoscimento della competenza esclusiva della Regione, sul piano socio-assistenziale forte impegno verso i settori poveri e della marginalità sociale, sul piano economico sostegno ai settori produttivi (diretto e/o come pressione sul governo), sul piano civile interventi a garanzia dello svolgimento delle funzioni essenziali. Non è poco ma con sguardo limpido occorre vedere se l’intervento è stato adeguato, pur nella consapevolezza che sotto il profilo organizzativo e finanziario il peso è stato ed è rilevantissimo.

E tuttavia si sente il peso di una assenza. Milano ha ambizioni – più che fondate e più che da sostenere – di portata nazionale ed internazionale. Senza scomodare parole non sempre meditate, come nel caso di “modello”, ci sono almeno tre aspetti sui quali è indispensabile riflettere per cambiare.

  1. La sanità. Dall’epoca di Formigoni la sanità in Lombardia ha voluto dire polpa agli ospedali e briciole al territorio ed alla integrazione tra i due livelli. L’espansione degli ospedali privati è possibile (causa ed effetto al tempo stesso) solo in questo contesto strategico. Ospedali di altissimo livello, certamente, anche se non proprio tutti e non senza scandali, alcuni dei quali gravissimi come quelli che a Formigoni sono costati carriera e libertà. In tempi normali, il Comune può anche limitarsi a esprimere posizioni diverse, come spesso ha fatto anche se non sempre con la necessaria forza, più attente al rapporto con  la sanità e la assistenza sul territorio. In tempi eccezionali, anche nel pieno dell’emergenza si deve trovare la forza per non limitarsi alla denuncia e – invece – condurre azioni diverse al limite della unilateralità, per evitare di andare contro il muro, quando lo si vede con chiarezza in fondo alla strada. Vale per istituire servizi di emergenza, ad esempio di sostegno ai medici di base tuttora allo sbaraglio, vale per battersi per soluzioni alternative tipo padiglioni non utilizzati di ospedali invece di scintillanti quanto vuote strutture in Fiera. Ma sono interventi costosi, dice il “bravo padre di famiglia” o il ragioniere, la legge non vuole oppure non parla, dice il funzionario o il revisore: in questi casi si vede se c’è e quanto sia grande il peso e la autorevolezza di una amministrazione, per agire, e nei confronti del Governo, per cambiare leggi. Il punto più critico è stato il caso del PAT e delle altre RSA, a partire da quelle comunali in gestione: anche qui vale – eccome! – il principio di responsabilità per una gestione regionale vergognosa ma al tempo stesso il Comune nomina presidente e CdA del PAT, spettano loro compiti di indirizzo (non mi pare sia scritto esplicitamente ma ogni indirizzo richiede un controllo da parte di chi lo decide e comunque non si vede chi possa eccepire se un CdA si occupa incisivamente di ciò che succede nella struttura che amministra e se qualcuno eccepisce lo si può ignorare, se si hanno forza e ragione) e “sopra” di essi c’è chi li ha nominati, che può/deve chiedere conto del mandato affidato. Nulla di tutto questo è successo, fino all’articolo di Gad Lerner e agli altri che ne sono seguiti sulle altre RSA a Milano e in Lombardia.
  2. Poteri e risorse. In generale, non solo né tanto nella sanità, si sa e si dice sempre essere scarsi a fronte di compiti enormi, tanto più in una emergenza che potrebbe protrarsi a lungo. Anche qui, però, ci sono alternative alle sole richieste di più fondi e/o più poteri. Intanto occorrerebbe sempre accompagnare ogni richiesta con programmi puntuali di azioni e indicazione di obiettivi: vizio nazionale, se pensiamo che una parte non piccola dello scarso prestigio internazionale deriva dalla povertà dell’approccio, che anche a Bruxelles ha fatto più leva sulla solidarietà che sulla solidità (dei programmi). Ma restiamo a  Milano. Va rilevato che c’è un grande buco nella inesistenza della dimensione metropolitana di ogni ragionamento e scelta (strategia sembra troppo): il virus e la crisi che ne segue si combattono dentro i confini comunali? Tutti hanno fatto finta di credere che “nulla sarà come prima” ma non si vede ancora come sia davvero possibile e sembra invece si stiano rimettendo in  moto gli stessi meccanismi di “prima”. Chi, dove, come sta ragionando sul futuro di Milano? E come questo si collega con i provvedimenti di riapertura? E con quali spazi di dibattuto pubblico? E’ giusto dire che adesso si è aperta una fase di consultazione sul documento che si chiama “strategia di adattamento”, non esattamente significativo di una trasformazione. Eppure, questo è il nodo essenziale. Ridisegno della città? Certo e si dice che i quartieri dovranno avere a 15 minuti a piedi la dotazione dei servizi fondamentali. Una rivoluzione, a Milano, un segnale fortissimo, una svolta. Vuol dire riprendere in esame tutti i progetti di ristrutturazione urbana, cambiare le priorità: finisce in fuorigioco il nuovo stadio? E occorre una gran dose di risorse: chiederle al governo o lamentarsi dei riparti che fa la Regione? Un po’ poco: il comune avrebbe potuto lanciare subito la proposta di compensare debiti e crediti alle imprese ed aziende ma anche ai cittadini; stabilire una non breve sospensione di canoni, affitti e tributi locali; accelerare a giorni il pagamento dei propri debiti ed acquisti (spese già dotate di copertura, peraltro, non spese aggiuntive). E poteva battersi con forza contro la singolare idea di bloccare i cantieri delle opere pubbliche che avrebbero potuto utilmente avvalersi della città vuota, delle scuole vuote per fare tutti quei lavori che da anni si rinviano: opere indispensabili, lavoro, denaro fresco per imprese e lavoratori, meglio dei sussidi e della cassa integrazione. Non ci sono i soldi? Li chiedo al governo, li tolga pure dal conto dei provvedimenti di sostegno che ha deciso, spendendo le stesse cifre ma decentrando, aggirando l’imbuto delle banche e ottenendo effetti micro e macroeconomici nemmeno paragonabili (anche alla Bocconi conoscono questi effetti). E questo vale anche per le misure di semplificazione di cui un grande comune può essere sperimentatore e avanguardia. Certo è difficile, per la macchina poco agile, per radicate modalità di lavoro e di concezione (si parla anche per esperienza diretta) e per una riforma della PA locale che appare in pausa. E poi molte di queste voci richiedono la modifica di norme o la loro momentanea sospensione: ma questo è ciò che chiede un comune o meglio una Città metropolitana al governo, e con tutta la forza necessaria, perché si tratta di assi politici diversi e innovativi, che fanno leva su un rapporto di fiducia con cittadini e imprese, e possono essere la base per un programma di medio e lungo periodo in cui non vige più la logica del sussidio o del sostegno ma quella della compartecipazione e della corresponsabilità. Il Comune è ancora fermo alla (nobile ed utile, sia chiaro, e che continui) gestione del Fondo di solidarietà ma oggi, oltre a rimanere tutte le ragioni per le quali era stato costituito, si sono aggiunti esigenze e scenari nuovi e diversi, che richiedono di ideare e gestire strumenti finanziari che in modo permanente attraggano il risparmio, prevedano rendimenti certi e non speculativi, soprattutto canalizzino le risorse verso usi di interesse generale perché sono l’ossatura della ridefinizione complessiva della città, delle sue esigenze e delle prospettive. Vale per l’Italia ma anche una grande metropoli può fare queste cose: ogni cittadino scommetterebbe volentieri sulla propria città, sulle sue metropolitane, la sua acqua, la sua energia.
  3. Ruolo nazionale e internazionale. Un ruolo nazionale si svolge non se si viene definiti “risorsa per la Repubblica” (che brutta espressione, quasi come “metterci la faccia”) ma se l’impronta di governo che si offre diventa un punto di riferimento e di innovazione reale. Un ruolo internazionale va ricostruito e speriamo possa contare molto l’intesa tra sindaci delle grandi città recentemente stabilita, con il coordinamento proprio del Sindaco di Milano. Usiamo però tutta la tastiera delle relazioni costruite in anni di paziente e non facile lavoro, un po’ in tutti gli scacchieri che contano, in Europa, in Oriente e nel Mediterraneo. Va considerato però che il modello della città degli eventi appare non solo spiazzato ma anche non più proponibile. Gli eventi reggono quando sono ben identificati e non inflazionati, quando interessano tutta la città e non ne lasciano alcuna parte in ombra, quando – ed oggi è decisivo – sono fatti “a misura delle persone” e non “delle folle”. Soprattutto devono stare in equilibrio con la vita ordinaria e quotidiana della città: nessuna delle grandi città-mondo è diventata tale senza una robusta e crescente capacità di attrarre studenti, docenti, studiosi, industriali tecnici e lavoratori, di sviluppare ed esportare modelli di organizzazione della vita e dei servizi. Era questo che non funzionava nell’incidente del video “Milano non si ferma”: era un  momento in cui la consapevolezza della gravità della situazione era parziale ma per un elementare principio di prudenza sarebbe stato bene non cedere ad una idea di Milano che poteva essere messa radicalmente in discussione da sviluppi ancora ignoti. Il fatto è che quel video aveva alla base una idea di Milano come città degli eventi, non diversa da tanti stereotipi del recente passato. La riflessione critica dunque non riguarda il video in sé ma ciò che si pensa Milano possa essere oggi e ancora di più domani. Non la città sicura per la salute o accogliente (a Calvairate? A San Siro? Al PAT? con i dati che – pur migliorati – spiccano ancora in tutti i giornali? ) e nemmeno con sinergie turistiche con i centri lombardi ancora più colpiti dal dramma del contagio (girano idee curiose).

Non ci sarebbero straordinarie ricadute su tutti i piani – anche su quello del turismo – se Milano assumesse l’obiettivo di realizzare proprio qui un equivalente del CERN di Ginevra per la ricerca sui virus? Ne parla il Corriere della sera del 3/5, c’è da “recuperare” lo scacco subito all’epoca dell’Agenzia del farmaco, ci sono risorse intellettuali, scientifiche, economiche e dunque un  tessuto ed un contesto positivi, può essere un grande e straordinario obiettivo che caratterizza una lunga fase.

Ecco così un obiettivo alto e concreto: sostenendolo e facendosene carico, quale la città dimostra di aver capito le ragioni strutturali che hanno portato alla pandemia, sceglie di seguire modelli diversi a partire da sé stessa, trova nuove forme e nuove forze per guidare il cambiamento.