Milano sostenibile, però equa e solidale. Prima parte: scelte sul territorio.

Oggi dobbiamo combattere e convivere con l’ epidemia e non trascurare i vecchi nemici, la congestione e l’inquinamento. I sacrifici, però devono essere condivisi, non addossati solo ad alcuni. Come?

La vicenda COVID ci lascia certamente un’eredità permanente: non dobbiamo più stare tutti insieme in poco spazio, perché, anche una volta smorzata, questa malattia può tornare o può arrivare la prossima. Alcune attività ne sono colpite più di altre: l’istruzione-formazione-cultura, la ristorazione, lo spettacolo, gli spostamenti.

Gli spostamenti devono cambiare, il cambiamento non può essere indolore, qualcosa dobbiamo lasciar cadere, qualcosa tutelare per prima. Ci occorre una gerarchia delle necessità. Di primo livello: rifornimento dei beni vitali, accudimento di chi non è autosufficiente (infanti, anziani, malati …), servizi irrinunciabili (es. sanitari). Subito dopo, le attività di base: lavoro, ed educazione fin dai primi anni. Infine, tutto il resto, le attività di libera scelta: importanti, importantissime, ma non paragonabili alle prime,dallo shopping allo sport alla socialità. Quando si parla di spostamenti, si deve parlare in primo luogo di quelli essenziali ai primi due livelli.

Nelle grandi aree urbane (Milano per prima), gli spostamenti si scontrano con la finitezza dello spazio locale (congestione) e causano esternalità negative (inquinamento) ma l’esigenza di distanziamento ci costringerebbe a moltiplicare le portate dei flussi (userò metafore idrauliche – gli studiosi infatti affiancano la teoria della circolazione proprio all’idraulica). Questo nodo non può essere affrontato con timidezza o con palliativi, ci vuole un approccio radicale, che per ora non vedo proprio. E il cambiamento non può limitarsi al sotto atto individuale di spostarsi.

La prima linea d’azione, pare ovvio, è tagliare alla radice la necessità di spostamenti:

  • Smart working, ovviamente, da regolare seriamente e duramente (diritto effettivo alla disconnessione).  Ricordiamoci però: smart working per quelle attività che lo permettono, e non sono tutte, anzi!
  • In parte, didattica a distanza, immaginando grandi investimenti pubblici per non farne l’ennesima ragione di diseguaglianza nei punti di partenza. Fin qui, tutto scontato.
  • Distribuzione pubblica delle merci. Definire un’area “calda” (i limiti comunali?) e permettere la distribuzione in area solo ad un operatore unico (ovviamente pubblico) a partire da un’unica piattaforma di arrivo/distribuzione (attuale Ortomercato?). Si sappia che tecnicamente ciò consente di minimizzare notevolmente i percorsi a parità di servizio.
  • Servizi svolti via web. Pensate alla PA? Sì, ma non solo. Parte della medicina di territorio, quasi tutta la polizia, i servizi bancari, il notariato. Qualcosa si fa, molto di più si potrebbe fare e con prontezza di cambiamento diversa. Non parliamo dell’attuale “user-friendliness” degli strumenti web. Centri di assistenza di prossimità, pubblici e gratuiti, per chi ha difficoltà a dialogare.
  • E molto altro …

Oggi, gli sprechi non sono ammissibili: dobbiamo usare tutti i tempi possibili e bilanciare l’uso di tutti gli spazi. Per i tempi:

  • Sfalsare gli orari. Ovvio! Lo dicono tutti … Ma è tutt’altro che facile, occorre bilanciare lecite esigenze diverse, economiche, familiari, personali. Temo che una dose di regolazione coercitiva per gli operatori economici sia inevitabile, se si vogliono i risultati. Ci vuole un decisore competente, preparato, ma anche empatico col largo pubblico.
  • Allargare le fasce orarie utilizzate (questo lo si dice molto meno). Aree della città congestionate di giorno e spettrali di notte o viceversa, non sono più ammissibili. Ci sono negli USA, ma a loro lo spazio non manca. Per noi, il concetto di “distretto degli affari” o “della movida” è un retaggio di un’altra era. La liberalizzazione delle aperture commerciali va ripensata senza pregiudizi.
  • Approvare una legislazione sul lobbying severa e trasparente. Cosa c’entra? Molti degli scempi urbanistici e commerciali che vediamo ogni giorno (chioschi di vendita in luoghi assurdi, ad esempio …) hanno origini ben precise.

Spazi: qui non si deve ragionare in termini di “mobilità sostenibile” ma di “urbanistica sostenibile”. Milano, come è oggi, è una insensatezza centripeta. Perciò, dobbiamo decentrare tutto il decentrabile ma non basta dirlo, ci vogliono decisioni immediate e conseguenti, per quanto impopolari:

  • In zona 1, devono restare solo i servizi di prossimità della zona 1. Tutti gli altri spazi occupati dalla PA devono essere liberati.
  • La sede della Città Metropolitana deve essere lungo le tangenziali (a Vimercate?). Primo passo per deciderlo: elezione diretta del sindaco metropolitano. Persino l’assurda legge Delrio lo permette già, finora è mancata la volontà politica.
  • Palazzo Marino non può più essere la sede del Comune di Milano. Qui ho una soluzione più radicale, ma non voglio scandalizzarvi.
  • La tassazione locale deve penalizzare fortemente le attività in posizioni centrali. Se, per renderlo possibile, ci vuole una legge speciale per Milano (e Roma e Napoli e Torino e Palermo e Genova), la si faccia.
  • Poi, analoghi ragionamenti dovranno farsi per tutti gli altri grandi centri di attrazione di flussi: licei, università, ospedali, camera di commercio … Chiaramente, sarà tanto più difficile quanto più le sedi attuali contengono impiantistica.

Un approccio radicale come questo rende credibili ed accettabili anche i sacrifici che dovremo imporre ai singoli nel ristretto campo degli spostamenti (visto che molti flussi rimarranno comunque inevitabili).

E per gli spostamenti? Ci vuole un altro articolo.

3 thoughts on “Milano sostenibile, però equa e solidale. Prima parte: scelte sul territorio.

  1. Su molte soluzioni ci vuole una discussione approfondita, tecnica e politica, che il Comune non sta affatto promuovendo (lasciamo perdere le “osservazioni alla Strategia di adattamento” …). Io non ho la pretesa di indicare soluzioni magiche. Però è importante partire da queste basi: il COVID ha radicalmente cambiato il panorama, ogni soluzione deve tener conto dei bisogni di TUTTI, qualcosa dovremo, purtroppo, sacrificare, in base all’importanza per le persone.
    Quanto alla tassazione, in particolare, il problema c’è. Gli esempi che fai però, sono un po’ particolari. Soro ha fatto una cosa sbagliata, proprio nel solco di quell’orientamento strabico che io critico (parliamone). Venezia è un caso molto diverso e specifico, va visto complessivamente.
    Parliamo invece di Milano. Per noi congestione e inquinamento sono problemi di prima grandezza, niente di paragonabile a Palermo o Brescia, e abbiamo bisogno di fare sacrifici più duri. Desertificare il centro è un rischio, giusto, ma alleggerirne la congestione è necessità assoluta. Facciamo una bella discussione sul “come” farlo (tasse, regole, o altro) ma farlo è imprescindibile.

  2. Carissimo Paolo
    Sei sempre lungimirante nelle tue analisi, però non tutte le soluzioni che proponi mi piacciono, alcune perché non mi sembrano poi così necessarie, altre perché utilizzi un modo di comunicare troppo da vecchia sinistra, non ti offendere, sai bene che comunque ti stimo. Quando dici che le attività al centro della città dovrebbero essere fortemente tassate fai un errore gigantesco guarda, ad esempio, cosa è e sta successo a Venezia.
    I canoni di affitto dei locali di piazza San Marco, buona parte di proprietà comunale, grazie ad una legge di alcuni anni fa, vengono rinnovati, mi sembra, ogni due anni, sulla base di aste con offerte da presentare in busta chiusa.
    Chi offre di più si aggiudica i locali senza tenere conto delle attività che da molti decenni vi avevano sede, spesso artigianali e identitarie del territorio.
    Cosicché progressivamente quei locali vengono acquisiti da aziende commerciali multinazionali per le quali la presenza in quella magica piazza è sostanzialmente una questione di prestigio, ma che certo non rappresentano la cultura e l’identità di Venezia e del meraviglioso Veneto. I pochi che resistono a canoni di affitto davvero fuori dalla grazia di Dio sono costretti ad esporre prezzi esorbitanti.
    Tutto ciò sta accadendo dappertutto. I centri storici prestigiosi stanno diventando territorio esclusivo di grandi marchi internazionali soppiantando le attività storiche ed identitarie delle città.
    A qualche amministrazione gli sta bene che sia così, fanno cassa, ma è lo stesso errore concettuale che Soro, ai tempi in cui era presidente della regione Sardegna fece quando decretò la tassa di accesso alle spiagge della Costa Smeralda. La pubblicizzò come tassa sul lusso, ma i proprietari delle ricche ville, quasi totalmente seconde case della zona, ne furono entusiasti, otto euro ad accesso per loro di certo non rappresentavano niente, ma per le normali famiglie di residenti dei comuni limitrofi rappresentò un a barriera economica per l’accesso alle loro spiagge storiche. Infatti Soro non venne rieletto.
    L’urbanistica democratica è la fruibilità razionale e consapevole del territorio indipendentemente da chi sei che fai e quanto denaro possiedi.
    Un caro saluto Pippo Amato

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