Superare un modo vecchio di guardare al Paese se vogliamo andare avanti nella direzione del cambiamento

Anche con intenzioni positive e condivise, non si riesce a discutere dei problemi che abbiamo di fronte: troppi non vedono che la crisi sanitaria ha solo fatto esplodere bombe già tutte esistenti.

Fosche previsioni, una guida che non riesce (non può? non ne ha?) ad esprimere un indirizzo e degli obiettivi intorno ai quali realizzare uno sforzo comune. Questa nebbia aumenta se si continua ad usare categorie del tutto inutili sia a descrivere la situazione sia a capirne il senso sia a reagire ad essa. Questo riguarda il governo, le forze politiche ma anche il sistema della informazione e i provetti commentatori che ogni giorno si misurano con la questione della ripresa del Paese.

Due esempi.

“Le donne (i giovani) non possono pagare il conto della crisi”. “Non si può rinunciare all’energia e al talento (chiedo scusa per la parola) delle donne (dei giovani) per ripartire”. Si possono citare a dozzine le espressioni di questo genere, orma, i veri e propri ritornelli. Cosa non funziona? Naturalmente non funziona la retorica e nemmeno un lessico francamente fastidioso. Ma più ancora non funziona una idea di Italia nella quale il virus ha prodotto questo disastro e di conseguenza la marginalizzazione di donne (e giovani) nella produzione, nello sviluppo, nella vita civile. Sì, anche in questa, perché dopo la crisi sanitaria, dopo la crisi economica, rischiamo la crisi sociale e, in fondo alla strada, la crisi della convivenza. Il problema dell’Italia è che tutto questo c’era già prima del virus: attenuato dal sostegno delle famiglie, mitigato da mille forme di lavoro improduttivo e “sul pelo dell’acqua” ma provvisoriamente in grado di produrre reddito, anch’esso “sul pelo dell’acqua”, esorcizzato da stages, lavoretti, garzonato (vero nome dei rider, meno smart ma ben più concreto), contratti a termine, lavoro nero e così via. In non poche aree del Paese anche un (bel) po’ di economia paralegale e illegale. Il virus ha stracciato i veli che offuscavano la vista, scompaginando sia l’economia maggiore che quella minore. Vuol dire che la sfida è questa: non tornare all’Italia di prima, non riprodurla, e invece cambiarla. Nulla meno di questo sarà necessario. E anche a Milano ci vuole questo approccio, perché è un colosso, sì, ma con piedi di argilla, la cui fragilità è stata a lungo rimossa e che a sua volta non è una situazione da affrontare con nobili intenti solidali (naturalmente anche questi ci vogliono) ma una condizione strutturale da rimuovere con politiche di formazione, occupazionali, di sviluppo di nuovi settori di attività, non con sussidi ma con investimenti. Visto che si parla di socialismo, ricordiamo che è meglio insegnare a pescare invece di regalare pesci. Così Milano può ripartire davvero ma ciò che conta è la direzione di marcia.

(P.S.: poi, a guardare le cose più da vicino, si scopre che il problema è analogo anche per gli uomini e fino a 50 anni. E’ sempre stato così: i giovani hanno trovato il loro posto nella società da un lato perché ritmi e dimensioni dello sviluppo erano impetuosi, dall’altro perché la vita era più breve o perché c’erano fattori esterni che mutavano la composizione della piramide per età: guerre ed epidemie. Oggi, per fortuna di tutti, non è più così –almeno nei nostri lidi – ma per questo la retorica è inutile e dannosa. Come dire che questo modello di sviluppo regge su un gigantesco spreco di risorse e di intelligenze: cambiamolo, a partire da qui, perché Milano continui ad essere un patrimonio per l’Italia).

Il secondo esempio è analogo, in quanto si riferisce ad una visione che anch’essa deve scomparire. Il documento del gruppo di lavoro Colao (avevo criticato il primo contributo durante la quarantena ma avevo sbagliato e chiedo scusa: il problema non erano le risposte ma la qualità delle domande che il Governo aveva rivolto loro) presenta molti spunti e proposte apprezzabili, insieme ad inevitabili questioni che richiedono un esame critico approfondito.

Nelle prossime settimane si dovrà finalmente mettere testa e poi mano ad un processo di rinnovamento produttivo del Paese, perché dalla capacità di produrre ricchezza e ricchezza sociale dipendono la nostra vita quotidiana ed il futuro: lavoro e sviluppo di qualità, non sussidi bonus e pensioni.

Ma c’era bisogno di prevedere un ennesimo condono fiscale, per far emergere il nero? e ad ogni passo, per ogni proposta, si prospetta un vantaggio fiscale nelle varie forme possibili? Più che un fisco di sartoria, nasce il fisco di Arlecchino, anzi, non c’è più “IL” fisco ma “UN” fisco quasi per ciascun soggetto, con tanti saluti alla progressività, alla certezza del diritto che si trasforma in certezza di contenzioso infinito, alla coerenza del sistema, alla equità fiscale e in definitiva alla certezza delle entrate pubbliche, le uniche sulle quali fare davvero conto per dare ai cittadini la sicurezza che chiedono. Anche sul primato del servizio pubblico – che sembrava una felice eredità del dramma della pandemia – si sta ritornando indietro, ai vizi di sempre?

1 thought on “Superare un modo vecchio di guardare al Paese se vogliamo andare avanti nella direzione del cambiamento

  1. Io credo che il “problema”, non “un problema”, sia l’iniqua distribuzione della “ricchezza”. Anche il momento, che stiamo attraversando, porterà ad accentuare questa ingiustizia.

    C’è gente che non ha da mangiare, in Italia, e gli aiuti sono irrilevanti: NON SERVONO AIUTI, CHE SONO UN TAMPONE, ma, allo stato dell’arte, SERVONO INTERVENTI STRUTTURALI e, perchè no, SUI PATRIMONI !!!

    Mi pare che chi ha i soldini, egoisticamente, li difenda, anche se non gli servono più, avendo superato il limite della “decenza”.

    I modi di ottenere quello che auspico (ridistribuzione della ricchezza) non possono che essere due:

    – solidarietà vera (pubblica e/o privata)

    – obbligatorietà (imposta con leggi ad hoc)

    Non oso pensare ad un’altra, già avvenuta in altri tempi e luoghi, e purtroppo cruenta.

    Chi ci governa non cambia nulla, stiamo dando l’aspirina a chi ha un tumore…..

    Poi non parliamo dei privilegi, qualunque “casta” tocchi si difende utilizzando leggi fatte dagli stessi personaggi (in negativo).

    Totò diceva. e io pago !!! Ma fatemi il piacere !!!

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