Per capire la vittoria di Biden bisogna superare i soliti luoghi comuni

Le elezioni americane sono finite e, nonostante lo strascico di polemiche e ricorsi delineato dalla Casa Bianca, Joe Biden ha vinto. Se analizziamo i voti e le percentuali, emerge uno scenario molto diverso dalla narrazione tipica dei commentatori italiani.

Le elezioni possiamo riassumerle così: non è vero che i democratici abbiano vinto perché il candidato fosse un moderato. Non è vero che la sinistra americana vinca tra i ceti medio-alti e perda tra i poveri,  che i democratici vincano nel centro delle città e perdano e nelle periferie. Non è vero che i sondaggi abbiano sbagliato clamorosamente e che Donald Trump fosse un candidato debole.

Negli Stati Uniti la destra non vince nella periferia urbana, e neanche negli hinterland, al contrario di una tendenza che sta avvenendo invece in Europa e specialmente in Italia. Vince in campagna, dove ci sono le grandi famiglie della borghesia rurale benestante. Negli Stati Uniti la destra non vince tra i poveri, ma tra chi guadagna più di 100,000 dollari all’anno, mentre la sinistra non vince tra i più fortunati, ma tra i non laureati non bianchi, ovvero i più “ultimi” tra “gli ultimi” .

Nell’America rurale Trump ha capitalizzato ancora più che nel 2016 un’enorme quantità di energia elettorale, spesso sufficiente per  superare con ampi margini il voto delle parti più urbanizzate di molti stati. Ha anche migliorato la sua performance del 2016 in alcune città, ma non abbastanza per essere competitivo con Biden, ad eccezione del caso emblematico di Miami, decisiva per assegnare con un margine superiore alle aspettative la Florida al Presidente in carica: qui il recupero tra i latinos di origine cubana è stato enorme. L’architettura della vittoria di Biden si basa però sui progressi rispetto alla performance di Hillary Clinton quasi ovunque, in misura minore anche nell’America rurale. E ha approfittato della diffusa insoddisfazione – o repulsione – per Trump nei sobborghi  urbani, da non confondere con il concetto europeo di “periferie”. La struttura urbanistica delle città americane, infatti, è molto diversa: il centro delle città è poverissimo (in città come Detroit, a grande maggioranza afroamericana, Biden supera il 90% dei voti) i sobborghi  – con differenze anche significative tra stato e stato – tendenzialmente più borghesi (o di tradizione operaia ma non a basso reddito).

Fonte: The New York Times

L’affluenza molto maggiore rispetto a tutte le precedenti competizioni elettorali aveva fatto pensare ad una “blue wave”, un’onda blu democratica, superiore alle aspettative. Queste elezioni saranno ricordate anche per aver parzialmente sfatato un mito dei democratici: una più ampia partecipazione al voto equivale ad una più larga vittoria della sinistra. Non è stato smentito, perché effettivamente i democratici hanno vinto, ma l’aumento dell’affluenza ha premiato anche Trump. La differenza sta tutta nella maggiore riserva di voti a disposizione di Biden nei fortini di consenso democratici rispetto a quelli repubblicani. In realtà, Donald Trump ha dimostrato dopo 4 anni di essere ancora il più forte candidato repubblicano sulla scena politica, capace di vincere contro i pronostici e rimontare contro le attese, galvanizzando con messaggi radicali e divisivi una base elettorale ormai alle soglie del fanatismo.

Biden ha vinto perché “moderato”, dicono alcuni editorialisti nostrani. C’è del vero, ma bisogna osservare il risultato con onestà intellettuale: se Biden non fosse stato un candidato moderato non avrebbe probabilmente conquistato una piccola quota di voti repubblicani (piccola, ma decisiva in alcune sfide) in stati come l’Arizona. Il risultato parallelo dei democratici per la Camera, mediamente inferiore di oltre un punto al dato del candidato presidente, dimostrano che questi “repubblicani per Biden” esistono eccome. Ma Biden non ha vinto le elezioni in quanto moderato sostenuto da una piccola quota di elettori repubblicani, ha vinto perché si è fatto carico di istanze radicali vicine alle esigenze delle minoranze e dei lavoratori poveri, in particolare nel Midwest. La Clinton ignorò questo segmento elettorale, al punto da non mettere piede in Michigan per l’intera campagna: Biden, saggiamente, ha impostato quasi tutta la sua strategia sulla riconquista della Rust Belt. L’enorme consenso tra le minoranze e i lavoratori è stato decisivo anche per rovesciare i repubblicani in Georgia, per la prima volta dal 1992.

Fonte: The New York Times

Come fa inoltre notare Bernie Sanders, i referendum statali tenutisi in parallelo alle elezioni fanno emergere uno scenario tutt’altro che conservatore: in Florida è stato approvato un aumento del salario minimo; Montana, South Dakota, Arizona e New Jersey hanno legalizzato la marjuana; in Colorado è stato approvata una legge sul congedo familiarie; l’Arizona ha alzato le tasse ai ceti benestanti per finanziare l’educazione.

In conclusione, quella di Joe Biden è una grande vittoria. I sondaggi delineavano uno scenario particolarmente favorevole per i democratici e, nonostante alcune vittorie siano arrivate sul filo di lana, alla fine è andata così: oltre 5 milioni di voti più di Trump, la riconquista degli stati democratici della Rust Belt e il rovesciamento dei repubblicani in Arizona e Georgia. Il Senato sarà deciso dai due ballottaggi di gennaio, una eventuale vittoria democratica darebbe a Biden una forza politica davvero significativa. Biden era un candidato popolare, conosciuto e apprezzato. Il suo approccio moderato è stato vincente negli swing states di tradizione repubblicana, la sua agenda politica chiaramente progressista è stata decisiva negli stati operai bianchi della Rust Belt. Ha saputo costruire una sintesi complicata e tenere una linea intelligente, giustamente cauta e rassicurante rispetto al tema predominante della pandemia. Ha sconfitto uno dei più grandi campioni repubblicani di tutti i tempi. E ha sconfitto una narrazione preconfezionata che i nostri commentatori nostrani dovrebbero cominciare a sforzarsi di superare.