USA, un nuovo Presidente, auguri e auspici di collaborazione da tutto il mondo. Anche dai partiti italiani: ma come e con quali obiettivi?

Coro di messaggi ed auspici da tutto il mondo indirizzati a Biden. E in ogni Paese, commenti e giudizi. I partiti italiani riempiono le pagine dei (nostri) giornali. Di riflessioni? Di idee e proposte su un mondo che deve affrontare enormi sfide e può farlo di nuovo con il contributo degli Usa? Non sembra proprio così: si parla di nuove vie ma, nel merito, di nessun problema.

Non c’è dubbio che ci sono alcune elezioni che tutto il mondo guarda con interesse, tensione e passione: un nuovo Papa, un nuovo Presidente negli Usa, in Russia, in Cina sono in grado di incidere profondamente, di determinare effetti di lungo periodo, di segnare svolte. E’ logico che sia così: c’è una gerarchia degli avvenimenti come risultato oggettivo di storie di lungo periodo. Germania, Francia, Regno Unito, forse Turchia (almeno di questi tempi) sono un gradino sotto, diciamo quello dell’interesse, un pizzico di tensione ma certo ben poca passione. Il resto è come l’intendenza, seguirà.

Che capi di Stato e di governo mandino messaggi, auspichino, augurino, eccetera è normale e che – anche se qualcuno con ritardo e/o con un ritegno al limite della freddezza – riempiano le caselle di posta del neo presidente dichiarandosi pronti a collaborare per una stagione nuova di rapporti è logico. Molto meno logico è che singole forze politiche, quale che sia la loro collocazione da destra a sinistra, e dall’interno di ciascuna di esse vari esponenti a titolo personale o di gruppo dichiarino, comunichino, si assembrino (ma non era vietato o almeno sconsigliato, soprattutto sopra i 60 anni?) nella prima fila degli entusiasti.

Si sente molto il bisogno di riflessioni e contributi meditati, pacati, realistici. L’interpretazione più forte che si può dare del dopo elezioni è che non vi è soltanto il senso della apertura di fasi nuove dopo il ciclone Trump ma anche la percezione che ruolo e presenza degli Usa non sono più quelli di un tempo. E’ una percezione spesso latente, non espressa, ma percepibile subito sotto la superficie: oggi è addirittura Panebianco sul Corriere ad esprimerlo, a differenza del suo approccio normalmente sbilanciato verso il forte protagonismo Usa.

Lasciamo da parte i laudatori di tempi, categorie e concetti andati sulla missione storica e l’eccezionalismo americano: principi e valori forti, che nella coscienza pubblica dei cittadini americani continuano ad operare fortemente ma che in bocche europee suonano francamente false perché lontane nel tempo e dunque essenzialmente ideologiche, come anche la eterna solfa del sogno americano, nato quando da tutto il mondo andavano lì non a sognare ma a lavorare molto duramente e uno su parecchie decine di migliaia se non di più ce la faceva, più o meno come dappertutto, solo che erano diverse le quantità. Guardiamo invece alle necessità di oggi.

Si è detto e ridetto, dunque, basta un richiamo generico e riassuntivo: Trump ha realizzato non solo America first ma soprattutto America alone. E sulla solitudine degli Usa ha cercato addirittura di modellare nuovi equilibri globali, dal contenzioso commerciale con la Cina – che ha un suo potente corollario di contenzioso con l’Europa, sia direttamente con le politiche dei dazi sia indirettamente con le sanzioni per interdire rapporti con Cina, Russia, Iran (a proposito: le sanzioni indirette ma non per questo meno incisive perché non si aprissero intese economiche con l’Iran erano iniziate appena firmato lo storico accordo dell’estate 2015, dunque con presidente Obama che pure aveva fatto con l’Iran una delle pochissime cose di grandissimo significato), al sostegno della Brexit, dalla presentazione del conto agli europei per il mantenimento della Nato al ridisegno dei rapporti nel Medio Oriente.

Dalle dichiarazioni di Biden su tutto questo si cambierà strada certamente nei toni, nei modi, nella considerazione degli alleati: dunque, non più America alone. Ma per quanto riguarda America first? Di questo dovrebbero occuparsi le cancellerie, i governi, i partiti, cioè della sostanza dei problemi e della portata epocale e dunque strategica di molti di essi. Solo sulle politiche ambientali si può essere ragionevolmente certi di un  cambio secco di indirizzo, perché le indicazioni a riguardo sono state ripetute, incisive e certo in sintonia con molte delle forze che hanno sostenuto e fatto vincere Biden. E’ bene mantenere una certa prudenza, dato che sul nodo cruciale del fracking invece ha detto cose contraddittorie e il tema è tra quelli che più incidono sulle contituencies degli Usa, perché in un punto solo si condensano politiche industriali finanziarie, sociali, geostrategiche.

Su tutto questo, inutile cercare traccia nelle dichiarazioni dei politici italiani e nemmeno dei governanti. Prevale invece la preoccupazione di trovare in Biden e nella sua coalizione l’ispirazione per politiche italiane, ancora una volta tutta giocate su messaggi ellittici di costruzione di schieramenti, di ricerca di slogan ad effetto, di parole d’ordine che alludano – nella speranza – a magnifiche sorti e progressive (dopo la Terza Via, la coalizione mondiale? manca perfino il nome anche se molti pensano più che a Biden a Harris). L’aspetto preoccupante è che questo avviene appunto su tutto l’arco delle posizioni politiche. A destra, per trovare sentieri più adeguati e moderni per una destra ben connessa a forze politiche di governo (da noi si dice centrodestra o anche centro liberale) che vanno dall’irraggiungibile PPE alle componenti centriste di Biden. Nella compagine sovranista, per riciclare una immagine compromessa con il sostegno a Trump (Fratelli d’Italia). Movimento 5Stelle: non pervenuto, tranne dichiarazioni prevedibilmente banali di Di Maio.

Il Pd e in generale l’area di centrosinistra sembra colpito da una scossa elettrica, rinvigorito da una vittoria cui è giusto guardi con interesse maggiore rispetto  ad altre forze politiche. Tuttavia, preoccupa che la scossa elettrica non accenda lampadine: pensare e dire che Biden indica una strada al centro sinistra italiano è una lampadina che rimane spenta, perché è solo la ripetizione (ad ogni giro più stanca) di una posizione sentita e praticata ad ogni elezione Usa, ad ogni candidato democratico. Insomma, in modi diversi, con finalità diverse, la politica italiana non riesce a costruire un ragionamento ed una politica con gli Usa nel segno della autonomia politica e culturale e sulla base di una analisi del mondo e dei suoi nodi sempre più stretti e difficili. La ripetizione di un approccio antico porta da un lato ad accentuare il carattere di ricerca della legittimazione e dall’altro al ricorso a categorie tutte datate prima del 1989. La conseguenza non potrà che essere il tradizionale profilo basso, da – come si è detto all’inizio – intendenza destinata a seguire. Così, si parla di valori comuni senza dire quali e come si manifestino oggi, di sicurezza senza dire quali siano i “nemici” di oggi e se corrispondano a quelli che può avere (o immaginare) il potente alleato, di collaborazione senza indicare gli obiettivi, di ambiente senza parlare di petrolio, e così via. Le altre forze di sinistra fanno prevalere il valore dell’aver scongiurato la conferma di Trump, ma si vede bene come manchi una sponda – in forze politiche di più ampie dimensioni ed aspirazioni – per sviluppare ulteriori ragionamenti: insomma, per costruire un progetto ci vogliono anche rispetto agli Usa interlocutori e non ammiratori.

P.S. – Non ho indicato la Lega, che anche rispetto agli Usa conferma di aver smarrito ogni possibile pallino. Quanto alla sicumera con cui Salvini si è pronunciato sulle sventure matrimoniali di Trump, meglio tacere, anche perché più ancora e prima della sua risposta, ciò che va squalificato sono la domanda e chi l’ha fatta.