Usa, Biden e tutti noi: adesso dobbiamo guardare alla agenda concreta. Dopo le follie di Trump ci sono novità per lo scenario globale?

Ogni giorno siamo più lontani dalle elezioni e dalle inconsulte reazioni del presidente-che-non vuole-andarsene e così si può cambiare fase, lavorare e giudicare in base ai fatti che inizieranno a manifestarsi. Invece di dire a Biden quel che deve fare in casa o chiedergli cosa dobbiamo fare a casa nostra, guardiamo alla dimensione internazionale che ci riguarda tutti.

Più ci si allontana dalla data delle elezioni Usa ed anche dalle incredibili reazioni di Trump e più commentatori, dirigenti di governo e politici iniziano a misurarsi con i temi della agenda politica della nuova Amministrazione, alleggerendo il carico delle aspettative spesso intrecciate con i desideri e con la inerzia della ricerca della benevolenza dei nuovi comandanti. Compaiono così elementi di fatto e riflessioni che prendono un po’ di distanza critica dalle prime reazioni e provano ad inserire promesse, auspici e timori nella realtà di un mondo molto più complicato degli schemi prevalsi negli ultimi anni.

Tutti convergono nel dire che gli Usa di Biden lavoreranno per ricucire i rapporti di collaborazione ed alleanza storicamente consolidati. Quasi tutti però iniziano a elencare i punti di tensione che esistono nei grandi scacchieri al di là delle intemperanze ed improvvisazioni di Trump: avrà avuto modi inurbani, arroganza ed ignoranza dei dossier, ma non vi è dubbio che ciascuna scelta fatta lungo i quattro anni era ben basata su dati di realtà, su orientamenti politici ed economici americani di lungo periodo, a rappresentanza e difesa di ben radicati interessi nazionali.

Ne abbiamo già parlato in precedenti articoli su Contropiede, quando si sono elencati vari aspetti di contrasto oggettivo che richiedono nuove politiche e non  nuovi modi dei rapporti, dal clima al commercio internazionale, dalle sfide tecnologiche a quelle diplomatiche (i trattati, in particolare in materia di disarmo e controllo delle armi nucleari), a quelle poste dai nuovi soggetti di rilievo globale (Cina, Russia, Ue) come anche da quelli di rilievo regionale (Iran, Turchia, Arabia Saudita: mancano soggetti in Africa, che rischia per l’ennesima volta nell’età contemporanea di essere il luogo delle guerre per procura, rimpiazzando in questo il Medio Oriente).

Su tutti questi aspetti si tratta di attendere i primi approcci e provvedimenti: abbiamo la legittima soddisfazione di aver visto con più attenzione e con maggiore tempestività i nodi che la propaganda interessata delle settimane scorse teneva in ombra, però occorre passare tutti – commentatori ma tanto più gli attori– alla prova dei fatti.

C’è una questione sulle quali è urgente richiamare l’attenzione proprio adesso, dinanzi al cambiamento di fase, e riguarda il cosiddetto Summit delle democrazie – recente proposta di Biden – che alcuni (Fabbrini, Sole24Ore del 15/11) chiamano quasi a componente organica del sistema istituzionale degli Usa.

Il Summit delle democrazie dovrebbe essere il nuovo nome – ma in realtà il nuovo concetto – dato a quello che per molti anni è stato il G-4-5-6-7-8 a seconda dei momenti, cioè la riunione delle economie più grandi e degli Stati più importanti per l’esame comune dei problemi fondamentali: crisi economiche, energetiche, di relazioni internazionali, eccetera. Prima o poi qualcuno scriverà una storia delle organizzazioni internazionali dal 1945 ad oggi e in quella sede affronterà anche quanto simili sedi abbiano contribuito – come causa ma senza trascurare l’aspetto parallelo di esserne effetto – alla profonda crisi dell’Onu e delle Agenzie internazionali di origine pattizia e globale. Nel frattempo, non si può non rilevare che i “G” nacquero come club ristretto dei Paesi capitalistici più importanti e l’ammissione a quel club era diventato il più visibile segno di promozione statale, di ingresso nella società che conta: anche la partecipazione della Russia aveva avuto questo carattere, mentre la Cina si era dovuta “accontentare” di dominare la scena a Davos. In quel vertice del potere economico e del denaro si badò al sodo e la Cina si prese il banco con gli interessi: come noto, i grandi capitalisti hanno letto con attenzione Marx e sanno a cosa dare la priorità!

Anche i “G” hanno subito i colpi della crisi dal 2008 fino ad oggi e sarebbe meritorio se qualcuno ripercorresse i risultati e i documenti degli incontri di questi anni: si vedrebbe che spesso hanno avuto la stessa capacità di previsione degli oroscopi. Ma che senso ha, nel pieno di una crisi globale come quella sanitaria, con assetti internazionali da ricostruire, con scenari regionali diventati ancora più complicati, con lo stravolgimento delle economie nazionali in conseguenza della trasformazione profonda delle filiere mondiali di produzione delle merci e della ricchezza, con l’uscita di masse amplissime dalla povertà e al tempo stesso con l’aumento esponenziale della polarizzazione sociale nei singoli paesi, a partire da quelli più sviluppati; che senso ha riproporre luoghi di decisione e concertazione che globali non sono?

Peraltro non si sa nemmeno quali siano le “democrazie abilitate” a partecipare: non si può fare a meno di pensare ad una politica di inviti che richiama il Congresso di Vienna, con l’aggravante e la complicazione che almeno a Vienna nel 1814-1815 c’erano dei vincitori e uno sconfitto. Qui chi sarebbero i vincitori e gli sconfitti? E in base a quale criterio? Lasciamo a parte la considerazione che non si vede un Metternich all’orizzonte e nemmeno un Talleyrand, un Castlereagh, figuriamoci un Humboldt.

Se è così, come non vedere che si tratta di un appuntamento che promette più complicazioni di quelle che intenderebbe risolvere? Quella relativa agli assenti, cioè ai non invitati, quella relativa alla natura dei presenti (democrazie? quali, come, entro quali limiti, e così via: non si accordano i giuristi o gli economisti figuriamoci tutti gli altri), quella relativa al rapporto tra i presenti e i potenti, cioè tra chi c’è senza avere forza e consistenza e chi non c’è ma detiene alcune delle chiavi di soluzione dei problemi. L’elenco potrebbe essere lungo, però è chiara, anche se non ancora espressa, la soluzione: chi verrà invitato lo sarà sulla base di una sempre più presunta comunanza di valori e principi. Presunta, diciamo per l’ennesima volta, non solo perché autodefinita (a Roma si direbbe che se la suonano e se la cantano)  ma soprattutto perché mai messa alla prova, da quella minima dell’elenco e dalla dimostrazione di valori e principi a quella ben più impegnativa di indicare la dimensione attuale di concetti abusati. Rapido elenco: da quali minacce ciascun paese deve difendersi? quali scenari militari? e i pericoli di questo mondo hanno tutti una soluzione militare? è vero che chi vede i problemi come chiodi concepisce la soluzione solo come martello, ma appunto chi vede e chi giudica cosa? la Russia è aggressiva e/o la Nato che si è estesa ai suoi confini immediati e vorrebbe procedere oltre (Georgia, Ucraina, Balcani)  invece? la Cina vuole estendere il suo controllo del Mare Cinese Meridionale ma il Quad (e gli Usa dal 1853 con l’ammiraglio Perry) non vuole esattamente la stessa cosa? gli Usa fanno di tutto per confermare il primato tecnologico e commerciale e l’UE tace e acconsente? nel contrasto tra Usa e Cina l’Europa deve accettare di scegliere con chi stare o non ha un ruolo proprio da affermare? e la sua difesa militare (en passant e ancora una volta: da chi?) ha necessità degli Usa e di armi atomiche o può e deve essere completamente ripensata? Ci sarebbero ancora molte cose da aggiungere all’elenco, clima, energia, Africa, materie prime: però già queste cose mostrano come non ci sia alternativa ad un approccio davvero globale, uscendo da binari che già hanno dimostrato di non essere in grado di guidare un cammino di sicurezza complessiva.

Italia ed Unione Europea dovrebbero riflettere bene sui passi da compiere e ricordare che il migliore amico non è quello che dà sempre ragione e tanto meno quello che attende di capire cosa gli convenga di più. Amico vero è quello che discute e dice la sua, per contribuire alla soluzione. Quanto meno per non diventare parte del problema!