Dopo le “grandi riforme” respinte dagli elettori, cosa cambiare nelle istituzioni? Seconda parte

Far nascere o interrompere la vita del Governo, cioè la questione della fiducia, è il punto più importante tra le attribuzioni del Parlamento. Da qui discende ogni ragionamento sulla sua centralità, che ha ragioni politiche e istituzionali al tempo stesso e che si basa sulla rappresentanza del Paese. Ma questo ultimo aspetto è uno dei più in crisi.

Più si interviene sulle modalità di lavoro e intervento del Parlamento, più torna la questione delle due Camere perfettamente pari nelle attribuzioni e responsabilità. Torneremo sulla questione in altra occasione, dato che il problema implica anche una riflessione sul ruolo delle Regioni nell’ordinamento generale e nella funzione legislativa, pur segnalando la personale propensione per la unicità della Camera cui affidare la funzione di esprimere la fiducia al Governo.

Funzione essenziale, cifra della centralità ed anzi segno del carattere del sistema istituzionale, è il voto di fiducia. Trent’anni di teorie sulle elezioni dirette (in generale, come elemento del sistema anche se non esteso al Presidente del Consiglio), sul principio maggioritario e sui sistemi elettorali maggioritari hanno indebolito il carattere fondativo del voto di fiducia e anzi hanno teso a minarlo (il voto è scontato per la blindatura degli schieramenti: se non lo è significa che è saltato il patto preliminare e la crisi è più profonda della “semplice” crisi del gabinetto). Oggi il tema va declinato in  modo diverso: la crisi prolungata dell’alternarsi di sistemi elettorali scombinati e tesi solo a fare il gioco di chi man mano li andava approvando, l’insistenza ad imporre sistemi maggioritari – per giunta talora proposti in versioni iper maggioritarie – nella idea, piuttosto singolare, che le difficoltà delle stagioni politiche potessero essere risolte distorcendo la rappresentanza, tesi tra l’altro dalla dubbia portata democratica, hanno portato ad una situazione non più tollerabile, come del resto ha indicato la Corte Costituzionale, vedendo in questa degenerazione un serio vulnus alla Carta del 1948.  Ma proprio per i guasti accumulati nello spirito pubblico, oltre a riportare la fiducia nel giusto binario costituzionale, occorre fare un passo in più, cioè regolare anche la fase discendente di essa, lavorando per una modalità trasparente per regolare l’eventuale cambiamento politico e dello scherma del governo. E’ il tema della sfiducia costruttiva, che rafforza il legame politico, riconosce pienamente la funzione del Parlamento, rende trasparente l’alternarsi di formule e intese per il governo.

In un più corretto rapporto complessivo, da ultimo, si possono riportare ad una fisiologica relazione la materia dell’esercizio di poteri legislativi di urgenza (decreti legge), anch’essi oggetto di ripetuti richiami, sia della Corte Cost., sia dei Presidenti della Repubblica, pur nella consapevolezza che vi sono almeno due aspetti del problema. Il primo è che vi è un eccesso di ricorso allo strumento legislativo, quando molti problemi potrebbero e dovrebbero trovare soluzione in provvedimenti amministrativi, tema che paradossalmente viene enfatizzato dalle leggi che contengono sempre più rimandi massicci a ulteriori decreti di attuazione, ragione non ultima del ritardo perenne della PA. Il secondo è che c’è una tendenza non solo italiana a concentrare nel Governo la più gran parte delle attività normative: anche questo è frutto di un eccesso di normazione (tema ricorrente, tanto da aver ormai stancato alcune delle teste migliori della amministrazione pubblica) ma anche – va detto – di una ideologia tanto superficiale quanto dannosa che esalta la modernità della decisione rapida ed anzi, quasi fossero tornati i futuristi, la rapidità delle decisioni come valore in sé. Solo frettolose e subalterne immagini dell’industria e della finanza possono portare a questi esiti: come se davvero la grande industria funzionasse all’istante e come se, soprattutto, non si fosse scoperto amaramente sia dove porta la tirannia delle trimestrali sia la iper velocità degli algoritmi di funzionamento automatico delle Borse. Anche qui, per favore, basta, e torniamo a qualche studio già meditato e scritto: se ne possono trarre indicazioni preziose.

E vi è poi il  punto tutto politico del Parlamento come luogo del confronto e della ricerca di più elevati livelli di unità e condivisione. Tale ricerca non impedisce il conflitto: in una politica trasparente e lineare, capace cioè di capire e farsi capire, il conflitto è la premessa per la ricerca dell’unità, perché nasce dalla realtà di interessi che non si incontrano ed anzi più spesso si scontrano, da letture diverse dei problemi e della loro soluzione. Ed è da questa chiarezza di posizioni che può nascere una consapevole ricerca dei punti di incontro che portano più avanti l’intera società. E’ uno schema ideale ma è realtà il fatto che le più importanti realizzazioni di sviluppo sociale e civile dell’Italia si sono affermate avendo avuto alle spalle questo tipo di clima parlamentare: è la storia dello Statuto dei lavoratori, del diritto di famiglia e del divorzio, della scuola media unica, della riforma sanitaria.

Negli anni 70, la centralità del Parlamento si declina anche come risposta alla impossibilità politica di modificare progressivamente il blocco tra maggioranza e opposizione e tanto più con l’avvio dei governi di unità nazionale. Il primo problema è che ne nacque una teoria istituzionale, di cui a rigore non vi era necessità, che a sua volta produsse retorica e ossequio formale ma con progressivo indebolimento sostanziale. Ci si accontenta del sottoprodotto emendativo e del surrettizio andirivieni tra le due camere.

L’ostacolo, a meno di una riforma profonda, è il maggioritario e la specifica declinazione blindata che ne abbiamo conosciuto: la centralità implica in primo luogo e anzi quasi esclusivamente la possibilità effettiva che nel corso della discussione e grazie al confronto cambino i provvedimenti legislativi e di indirizzo: con la proporzionale è possibile, con il maggioritario no, questo dice l’esperienza.

Certo, il sistema proporzionale rende indispensabile che dopo le elezioni i partiti concordino tra loro un programma di governo, secondo linee condivise, vicinanza politica e compatibilità programmatica. Non è forse preferibile un sistema che in modo trasparente si condensi intorno a priorità e obbiettivi, piuttosto di ammucchiate fatte solo per strappare un voto in più per avere il premio di maggioranza? E’ bene che tutti ricordino che l’esplosione dei gruppi autonomi, del passaggio di singoli eletti da un partito all’altro, la moltiplicazione di partiti  e micro aggregazioni personali sono tutti fattori esplosi da quando c’è il maggioritario. Né Scilipoti, né De Gregorio, né Razzi e nemmeno Turigliatto si sono manifestati quando c’erano il proporzionale e i partiti, anzi, questi erano l’ostacolo naturale ai personalismi. E, già che ci siamo – ma qui l’elenco sarebbe tragicamente e tristemente molto più lungo – con il maggioritario muscolare e il bisogno di controllare fino all’ultimo voto nelle Camere hanno portato ad uno sconcertante abbassamento del livello degli eletti, quanto a qualità, competenze e perfino serietà dei comportamenti, quando non addirittura al crollo della stessa educazione  individuale. E che dire delle aule parlamentari trasformate in luoghi di manifestazione, con cartelli, bavagli, cori da stadio?

Ma torniamo agli argomenti seri e più alti delle tante miserie viste in questi anni. Il punto più importante del ritorno al proporzionale è che, in un contesto che più facilmente e precisamente rappresenta la ricchezza e il pluralismo della società italiana, i conflitti sociali ed economici, la pressione dell’opinione pubblica, le campagne di opinione, insomma tutti gli strumenti della democrazia proprio di una società viva che si organizza, reagisce ed agisce possono ottenere risultati e cambiare indirizzi e scelte solo se assemblee sovrane possono riesaminare, rideterminare, cambiare le decisioni, non bloccate da meccanismi di ingessatura. Insomma, dopo moltissimi anni di politica ridotta a spettacolo da guardare dalla tribuna, di delega data alle elezioni e poi messa in un angolo, con la beffa (in realtà una truffa vera e propria) di sentire esaltata la funzione di decisione dell’elettore sullo schieramento di governo, è l’ora di tornare ad un sistema in cui contino gli eletti e contino i cittadini, nelle loro multiformi esperienze e pratiche di vita e attività.  Che sarebbe poi la sostanza della democrazia.