Patrimoniale? Sì, ma fatta bene – la riforma del catasto

Si parla di imposta patrimoniale, in questi giorni, fra consensi e forti dissensi. In ogni caso, essa dovrebbe essere applicata con equità e non favorire i soliti privilegiati. Ma è giusto tassare gli immobili e, come caso particolare, tassare la prima casa? Sì, purché l’imposizione sia applicata in misura corretta.

La Costituzione prescrive di commisurare le tasse al principio di “capacità contributiva” che la giurisprudenza, a sua volta, distingue dalla capacità economica complessiva del soggetto, escludendone il “minimo vitale”. Il godimento di un’abitazione fa senza dubbio parte di tale minimo vitale, ma la tassazione sul reddito si calcola sul reddito totale e non ne esclude la spesa per gli affitti eventualmente necessari. Si determina così una disparità fra chi è costretto a sopportare il peso degli affitti e chi possiede la casa di abitazione.

Una moderata imposta patrimoniale ordinaria sulle abitazioni è quindi imprescindibile, nel quadro di una imposizione fiscale onestamente ripartita. Essa si configura come un’imposta sul “reddito implicito”, finalizzata a rendere possibile un’imposizione più leggera sui redditi espliciti, a parità di tutte le altre condizioni. Vista così, non coincide con altre imposizioni patrimoniali, ordinarie o straordinarie, che hanno lo scopo di spostare l’imposizione dai redditi ai patrimoni, come ci raccomanda persino l’FMI.

La base imponibile, però, deve essere corretta, partire cioè dal reale valore del bene tassato. Lo Stato italiano prende a base di calcolo un valore (“rendita catastale”) che vuole esprimere il potenziale reddito ricavabile dal fabbricato, se fosse messo a frutto sul mercato. Oggi i valori numerici espressi sono molto inferiori al reale (si stima di circa il 50%) ma questo sarebbe un limite facilmente superabile, applicando una rivalutazione generalizzata come già si è fatto in passato.

La rendita catastale viene valutata attraverso meccanismi piuttosto sofisticati, che sembrerebbero garantire qualità dei risultati, ma soffre di due gravi limiti. Il calcolo, nella maggioranza dei casi, si basa sul “numero dei vani”, mentre sarebbe più precisa una valutazione basata direttamente sui metri quadri reali. Ma la criticità maggiore sta nel carattere di “dato statico”, bloccato al tempo della ultima determinazione/revisione degli organi tecnici. Così accade sistematicamente che immobili di pregio dei centri cittadini, di vecchia o antica costruzione, risultino di minor rendita rispetto a nuove costruzioni in aree meno centrali.

Superare questi limiti è impresa complessa e di medio periodo. Si dice che sarebbero necessari almeno 1000 nuovi tecnici all’Agenzia delle Entrate e cinque anni di tempo (fonte: Osservatorio CPI dell’Università cattolica). Questa è l’obbiezione principale messa in campo dalla lobby di chi è interessato a continuare a non pagare il giusto – sarebbe banale rispondere che i progetti di lungo periodo, proprio per questo, debbono partire SUBITO.

In realtà, le resistenze politiche sono fortissime, non solo da parte dei potenziali contribuenti:  tecnici, notai, Comuni, non hanno dimostrato mai particolare entusiasmo per questa riforma. L’unico tentativo serio di avviarla si è visto nella legge delega del marzo 2014 (anche Matteo Renzi “ha fatto cose buone”, perlomeno all’inizio del suo governo …). Non a caso, però, da allora, la realizzazione della riforma ha fatto pochi passi avanti. E nemmeno abbiamo realizzato ancora l’Anagrafe Immobiliare Integrata, decisa da una legge del 2010.

Chissà perché …