L’Ucraina: una economia di mercato non funzionante

Un paese sospeso tra due mondi e dilaniato da tensioni interne. Dall’inizio dell’anno tutto il mondo guarda con il fiato sospeso all’Ucraina. Kiev sembra una nuova Sarajevo. Sembra quasi da un angolo di un’angusta strada possa partire un colpo di arma da fuoco, che, come quello che uccise nel 1914 Francesco Ferdinando, scateni una guerra che coinvolga decine e decine di paesi.

Tuttavia la reale situazione è diversa. L’Ucraina è un paese dilaniato dal fatto che è sospeso tra due mondi, quello occidentale e la zona di influenza russa e dal macigno rappresentato da un groviglio da mala politica, povertà, corruzione, tensioni etniche. Gli attacchi a bassa intensità hanno caratterizzato l’Ucraina fin dal 1991 e c’è un conflitto latente fin dal 2014, quando le ostilità e la violenza fecero un salto di qualità; in questo momento una guerra come noi la immaginiamo che sconvolga tutta l’Ucraina e   magari coinvolga eserciti stranieri è molto improbabile. Ciò non significa che l’Ucraina non sia un paese da cui scappare. Si stima che il paese, che oggi conta 42 milioni di abitanti, abbia perso dall’indipendenza sei milioni di cittadini, ciò è dovuto non solo al basso tasso di natalità che non compensa le morti, ma anche ad una doppia emigrazione: quella dei cittadini di lingua ucraina che, in gran parte clandestinamente. si dirigono verso l’Unione Europea e quella dei russi etnici, che ritornano nella madre patria.

L’Ucraina è un paese grande quasi il doppio della Polonia, ma con una popolazione poco superiore ai 38 milioni di polacchi. A differenza dei vicini paesi di Visegrád non ha mai raggiunto lo status di democrazia avanzata[1], ha un Prodotto interno Lordo Pro-Capite in termini reali inferiore ai 10.000 dollari, lontanissimo da quello che l’OCSE stima per i paesi di Visegrád (tra 30.000 e 40.000 dollari nel 2020) e circa un terzo quello della Russia. In Ucraina l’aspettativa di vita è di circa 72 anni, come in Russia, ma ben lontana dai 78-80 anni di Polonia, Cechia e Slovacchia[2].

Una delle tante rappresentazioni del paese, semplificata al punto da diventare fuorviante, è lo Stato spaccato tra la parte di lingua ucraina, che vorrebbe aderire all’UE ed alla NATO e la parte di lingua russa, che vorrebbe entrare nella Federazione Russa. In realtà la situazione è molto più complicata. Storicamente la parte ad ovest del fiume Dnepr, che è stata parte della con federazione polacco lituana, è più legata all’Europa, invece la parte a oriente del Dnepr è accumunata alla Russia. Circa 8 milioni di cittadini ucraini sono russi etnici, ovvero non solo parlano il russo, ma per cultura e tradizioni sono russi. Tuttavia la lingua russa è assai diffusa ben oltre l’ormai noto Donbass: quattro regioni dell’est sono popolate in prevalenza da russi etnici e quattro regioni del sud, fino ad arrivare alla occidentale Odessa, sono popolate in maggioranza da ucraini etnici russofoni[3]. Un primo elemento di complicazione è quello che in Ucraina i russofoni sono molti di più dei russi etnici, ovvero nel paese esistono milioni di cittadini che pur parlando il russo nella vita di tutti i giorni sono per cultura e tradizione ucraini. Inoltre il russo è molto diffuso in tutte le grandi città compresa la capitale Kiev, questo perché per tutto il diciannovesimo secolo vi fu una massiccia immigrazione di russi etnici verso le grandi città dell’Ucraina. All’inizio del ventesimo secolo i russofoni erano il primo gruppo etnico in tutte le principali città del paese e i cittadini ucraini che si trasferivano delle campagne alle città dovevano imparare il russo che era la lingua della pubblica amministrazione[4]. In un contesto in cui i russofoni sono ben più numerosi dei russi, vi sono ampie sacche di bilinguismo, vi sono aree dove si parlano dialetti che sono un incrocio tra ucraino e russo ed è vano ogni tentativo di tagliare con un coltello i quattro quinti ucraini dal quinto russo.

I primi trent’anni della travagliata indipendenza ucraina possono essere suddivisi in tre periodi

  • quello che va dall’indipendenza dal 1991 alla rivoluzione arancione (novembre 2004-dicembre 2005) segnato dalla figura di Leonid Kučma, premier dal 1992 al 1993 e presidente dal 1994 al 2005;
  • quello che va dalla rivoluzione arancione (novembre 2004 – gennaio 2005) alle proteste di Euromaidan (novembre 2014-febbraio 2014)
  • quello che da Euromaidan arriva ad oggi

Sarebbe assai facile dipingere l’Ucraina come il contesto in cui ci sono in assoluto meno spazi per la pacifica convivenza tra due comunità etnico-linguistiche ed un paese per natura fascista. Tuttavia all’inizio degli anni novanta la convivenza era più civile che in contesti oggi considerati ben più avanzati, quali l’Estonia e la Lettonia ove il rapido passaggio al mercato e le ristrutturazioni delle imprese senza compensazioni penalizzarono la forza lavoro industriale in gran parte russa e la rapida deindustrializzazione fu concepita come un processo di decolonizzazione da Mosca[1] ed ove inizialmente le leggi sulla cittadinanza erano assai gravose per i russi; o la Slovacchia ove nei primi vent’anni dall’indipendenza vi furono diverse tensioni tra alcuni governi e la minoranza di lingua ungherese ed uno dei tre storici partiti dei magiari di Slovacchia addirittura sosteneva che il confine con l’Ungheria non esisteva[6]. In realtà la situazione del paese è divenuta esplosiva per via di performance economiche drammaticamente negative. I primi anni del mandato del presidente Kučma furono segnati da riforme, varate di concerto con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale che piegarono l’iperinflazione, ma non evitarono un andamento del PIL drammatico, con contrazioni talvolta anche a due cifre che si potassero fino al nuovo millennio[7]. Le cattive performance economiche furono spiegate dallo scarso afflusso di investimenti esteri dovuto a instabilità della normativa, potere politico poco trasparente, vulnerabilità del sistema bancario, nepotismo cronico, strapotere degli oligarchi e avanzata della criminalità organizzata[8]. Inoltre l’Ucraina politicamente indipendente si scoprì troppo dipendente dalla Russia sul piano energetico e su quello economico. Nel nuovo millennio ha sovente sottoperformato in termini di crescita del PIL anche le più ricche economie di Visegrád, che essendo ormai economie avanzate dovrebbero convergere su tassi di crescita “occidentali” e più bassi. Particolarmente drammatico fu per l’Ucraina l’effetto della crisi finanziaria 2007-2009, con una contrazione del PIL del 15% nel 2009 e altrettanto nefasto fu il salto d’intensità delle operazioni belliche che si tradusse in una contrazione del PIL del 6,6% nel 2014 e del 9,8% nel 2015.[9]  In questo contesto i presidenti ed i premier, sia filooccidentali che russofoni, non hanno esitato a spaccare il paese, puntando sul nazionalismo perché incapaci di risolvere i problemi della gente.


Il paese è dilaniato, oltre che dalle ambizioni della NATO (o sarebbe meglio dire americane) e russe, da due diversi nazionalismi, quello ucraino e quello russo. Gli studiosi dell’Europa postcomunista tendono ad individuare due tipi di nazionalismo, quello civico e quello etnico[10]. Almeno fino al primo decennio del nuovo millennio in Ucraina sia il nazionalismo ucraino che quello russo avevano natura civica. Gli ucraini filooccidentali sostenevano la necessità di ribellarsi contro le élite corrotte per agganciare gli standard europei, i russi etnici, che risedevano nelle aree più industrializzate e relativamente o lievemente più ricche del paese, rivendicavano la necessità di preservare i loro legami con Mosca soprattutto per ragioni economiche[11]. Dalla rivoluzione arancione, che inizialmente fu una ribellione contro le pessime condizioni di vita del paese, contro un potere politico corrotto e contro le oligarchie[12], la situazione cambiò. La rivoluzione arancione ben presto diventò una protesta di successo nel Nordovest del paese ma osteggiata dai gruppi russi dell’est. Fu il fallimento della leadeship della rivoluzione arancione (dopo soli otto mesi la premier Tymošenko  fu sostituita e si arrivò poi ad una clamorosa coabitazione tra il presidente filo-occdientale Jušenko ed il premeir filorussso Janukovich) a favorire l’avvento di forze di estrema destra. Molti cittadini da ormai un decennio pensano che anche le liberalizzazioni in Ucraina non hanno funzionato e si votano a partiti più interventisti in economia e xenofobi[13].

In Italia spesso la politica e l’opinione pubblica si spacca tra coloro che vanno a “caccia di fascisti” tra gli ucraini pro-occidente e coloro che vanno a caccia di fascisti tra i filorussi. In realtà esistono molti diversi estremismi di destra nei diversi fronti. Nel 2012, dopo un risultato inaspettato del 12%, entrarono nel governo “europeista” i nazionalisti di Svoboda, partito che sorprendentemente sostiene la necessità di creare uno stato “etnicamente omogeneo” ma allo stesso tempo vuole portare l’Ucraina nella NATO e nell’UE. Svododa è assimilabile agli ungheresi di JOBBIK ed ai greci di Alba Dorata[14]. Tra l’altro si noti che nell’est l’estrema destra europeista non è assolutamente un’anomalia, nella vicina Slovacchia forze nazionaliste e ultraconservatrici si sono spese per l’adesione all’UE[15]. Le proteste di Euromaidan del 2014 si differenziarono dalla rivoluzione arancione di quasi dieci anni prima per l’esplosione della violenza e per la partecipazione di forze di estrema destra e ultraconservatrici. Si scatenarono quando il presidente filorusso Janukovic abbandonò l’accordo di associazione con l’UE[16], furono sicuramente animate anche da una componente di “europeisti” desiderosi di agganciare gli standard       di vita occidentali, ma videro la partecipazione determinante dei nazionalisti di Svoboda e anche di un nuovo soggetto di estrema destra, Pravyi Sektor, che a differenza di Svoboda esprime un’ideologia sovranista integrale, che esclude l’adesione alla NATO ed alla UE. Inoltre racconta il reporter Eliseo Bertolasi che, trovandosi a Kiev nei giorni di Euromaidan fu colpito dalla presenza tra i manifestanti di tanti preti, della Chiesa Uniate arrivati della regioni occidentali, della chiesa ortodossa autocefala e perfino una delegazione dell’emittente Radio Maria. Se la rivoluzione arancione fu una rivolta contro la povertà ed una classe dirigente improponibile che solo per contingenza allargò la frattura tra filooccidentali e filorussi, l’unico collante di Euromaidan pare la russofobia e un congruo numero di bandiere blu con le dodici stelle non deve far pensare ad una piazza in prevalenza europeista. L’esito di Euromaidan nel 2014 fu la destituzione del presidente filorusso Janukovich, ma anche l’annessione, non riconosciuta dalla comunità internazionale, della Crimea alla Russia e l’autoproclamazione delle Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk, che solo in questi giorni il parlamento russo sta riconoscendo. E’ vero che buona parte dei nazionalisti filo-occidentali ucraini rivalutano l’esperienza del fascismo autoctono e celebrano Stepan Bandera, un collaborazionista dei nazisti, tuttavia la leadership delle autoproclamate repubbliche separatiste russe non è certo meno reazionaria.  Come racconta Jacopo Custodi[17] l’ultranazionalista  russo Alexander Dugin, teorico del “fascismo immenso e rosso” che he ha più volte manifestato il sostegno a movimenti europei di estrema destra ed in Italia alla Lega di Salvini, ha stretti rapporti con la leadership della Repubblica Popolare  di Donetsk. Tale autoproclamata repubblica ha una costituzione che vieta “ogni unione perversa tra persone dello stesso sesso”, vieta l’aborto, stabilisce che la confessione ortodossa è religione di Stato e impone alle autorità di rispettare i “valori tradizionali, religiosi, culturali del mondo russo”. In Ucraina sia il nazionalismo filooccidentale che quello russo in questi anni sono diventati sempre più patogeni. Da un lato l’estrema destra ucraina ha chiari riferimenti simbolici e culturali al fascismo autoctono, dall’altro l’estrema destra separatista russa punta su un antifascismo di facciata per raccogliere il consenso dei tanti nostalgici dell’URSS.

Ormai otto anni fa sostenevo che i tentativi maldestri di portare nel campo occidentale l’Ucraina, erano tanto dannosi per questo grande paese quanto le mire espansionistiche di Mosca.[18] Oggi l’adesione alla NATO ed all’UE dell’Ucraina non è strada percorribile, non solo per i veti di paesi attenti a preservare decenti relazioni con Mosca, ma anche per vincoli stabiliti dai trattati. L’Ucraina non può accedere alla NATO, non solo perché Putin non accetterà mai di vedere missili in Ucraina in grado di puntare su Mosca, ma anche perché il governo ufficiale dell’Ucraina non controlla tutto il paese. L’Ucraina non può accedere all’UE perché non è una funzionante economia e perché, come certificano le più autorevoli ed assolutamente occidentali istituzioni che monitorano lo stato della democrazia nel mondo, Freedom House e la Fondazione Bertlesmann, la qualità della democrazia in Ucraina è sul livello ungherese e sotto quello polacco e di certo oggi Polonia e Ungheria non si possono espellere dall’Unione ma non riuscirebbero ad entravi se non ne fossero già membri. Il solo peso smisurato degli oligarchi nei processi decisionali rende incompatibile l’Ucraina con l’Unione Europea.

 Otto anni fa perfino Herny Kissinger[19] e Zbigniew Brzezinski[20] sostenevano che all’Ucraina dovesse essere garantito uno status di nazione neutrale. Di certo lo smembramento dell’Ucraina non è un’ipotesi sensata, l’Ucraina non si taglia con un coltello, qualsiasi suddivisione del paese creerebbe due Stati con minoranze insoddisfatte e non sarebbe una soluzione per i tanti ucraini del sud e delle grandi città che hanno una doppia appartenenza.  Scrive Cristina Carpinelli “L’Ucraina prima di tutto deve risolvere il suo problema di un travagliato processo di ricostruzione nazionale. Perché se è vero che ha una sua identità statuale, definita sotto l’URSS dal 1917 al 1954, le faglie interne etnoculturali, etnolinguistiche e storico-geografiche ci sono ancora e segnano la sua storia presente”. L’Ucraina è il più grosso fallimento tra gli esperimenti di trasformazione dell’Europa postcomunista: non solo non è divenuta un’economia avanzata e non è una democrazia ma un regime ibrido, ma non ha ancora concluso il suo processo di nation building. Di certo non è possibile pensare ad un processo di pace se non verranno rispettati gli accordi di Minsk del 2014, che stabiliscono che venga concessa ampia autonomia alle regioni di Donetsk e Lugansk. E non si va in questa direzione né se Kiev si ostina a non modificare la costituzione né se Mosca riconosce le autoproclamate repubbliche. Tuttavia la riforma federale – che pure sembra lontanissima dato che Mosca va verso il riconoscimento delle repubbliche separatiste – probabilmente non basterà; deve essere studiata una qualche architettura istituzionale che consenta agli ucraini filo-occidentali di avere qualcosa che somigli ad un accordo di associazione con l’UE ed allo stesso tempo ai russi etnici delle regioni orientali di mantenere legami commerciali e culturali con Mosca. Infine serve un fiume di investimenti per far crescere PIL e salari in Ucraina. Nel 1989 Lech Walesa affermò che serviva un piano Marshall per l’Europa post-comunista, non arrivarono soldi, arrivò un “piano Marshall di consulenze”[21]. I consulenti russi e americani hanno diviso e distrutto l’Ucraina, adesso serve fermare le consulenze e far ripartire l’economia. Finché la gran parte degli Ucraini penserà che è impossibile avere una vita migliore, i fascismi di tutti i colori saranno imbattibili. Serve un occidente in grado di dare prestiti vincolati non solo alla capacità di centrare obiettivi di bilancio, ma anche a quella di estromettere dallo Stato mafie e oligarchie.


[1] Transformation  Index 2020, Bertlesmann.

[2] OECD. Gross Domestic Product (GDP); Transformation  Index 2020, Bertlesmann.

[3] L. CANALI, Ucraina, divisioni linguistiche ed etniche

[4] C. CARPINELLI, Le questioni della lingua e le sue fasi di evoluzione politica e legislativa. NAD. Nuovi autoritarismi e democrazie. Diritti, Istituzioni e società. N. 2 2019

[5] D. BOHLE – B. GRESKOWITZ, Capitalist diversity on Europe’s periphery. Cornell University Press, 2012. Pag. 122

[6] E. HARRIS, Nationalism and Democratisation. Politics of Slovakia and Slovenia. Routledge. 2018

[7] IMF DATA mapper. Real GDP growth https://www.imf.org/external/datamapper/NGDP_RPCH@WEO/OEMDC/ADVEC/WEOWORLD

[8] A. KASCHUTA, Economic nationalism in Central and Eastern Europe. 2015, pag. 82

[9] IMF DATA mapper. Real GDP growth https://www.imf.org/external/datamapper/NGDP_RPCH@WEO/OEMDC/ADVEC/WEOWORLD

[10] E. HARRIS, Nationalism and Democratisation. Politics of Slovakia and Slovenia. Routledge. 2018; A. KASCHUTA, Economic nationalism in Central and Eastern Europe. 2015

[11] A. KASCHUTA, Economic nationalism in Central and Eastern Europe. 2015. Pag. 87

[12] C. CARPINELLI, Polonia e Ungheria nella morsa dei populismi rurali, Casa della Cultura. 15 gennaio 2017

[13] A. KASCHUTA, Economic nationalism in Central and Eastern Europe. 2015. Pag. 87

[14] C. CARPINELLI, Polonia e Ungheria nella morsa dei populismi rurali, Casa della Cultura. 15 gennaio 2017

[15] L. BUŠTIKOVA, The radical right in Eastern Europe in the Oxford handbook of radical right. 2018

[16] Che non era un accordo di pre-adesione all’UE, ma un accordo commerciale tra l’altro non particolarmente conveniente (prevedeva una rigida condizionalità economica).

[17] J. CUSTODI. Ucraina: altro che “compagni”. La repubblica di Donetsk e l’ombra nera di Alexander Dugin, 15 agosto 2014

[18] S. SINAGRA, l’Ucraina, la Russia e l’Unione Europea in Cerca di una politica di vicinato. Eurobull, 25 marzo 2014

[19] H. KISSINGER, How the Ukraine crisis ends. The Washington Post, 5 marzo 2014

[20] Z. BRZEZINSKI, Russia need to be offered a Finland Option for Ukraine. Financial Times, 24 febbraio 2014

[21] P. KENNEY, Il peso della libertà. L’Europa dell’est dal 1989. EDT, 2006