Ricostruire l’Italia vuol dire governare, cioè fare scelte, non galleggiare sulle richieste di tutti i settori immaginabili

Un anno e più di risorse a mano libera, senza distinguere e differenziare, come se la pandemia fosse la stessa cosa per tutti: è certo che non si può procedere così, anche perché continuerebbe la gara estenuante a chiedere risorse senza renderne conto.

Sta prendendo corpo un problema al quale i gruppi dirigenti italiani – della politica, delle istituzioni, della finanza e in modo diverso il mondo della produzione – non sembra diano particolare attenzione. E’ il problema della differenziazione e della efficacia delle politiche pubbliche.

Pur nella articolazione, concettuale ed operativa, si tratta di un problema unico o meglio che fa corpo unico nella fase che stiamo iniziando a percorrere: in ogni caso, il controllo che l’UE effettuerà sull’utilizzo dei fondi PNRR sarà concentrato su questi aspetti.

Il tema della differenziazione si è proposto fin dall’inizio della pandemia. Anche all’occhio retrospettivo, appare evidente che i primi provvedimenti – classicamente di emergenza – non potevano che essere rivolti ad una generalità di soggetti, accomunati dall’essere all’ingrosso colpiti dagli effetti immediati e duri della velocità ed aggressività del contagio. E questo valeva sia per gli interventi di natura sociale a sostegno dei redditi sia per venire incontro alle esigenze di liquidità delle imprese ed anche al sostegno dei progetti di finanziamento e ristrutturazione in corso.

Tuttavia, l’approccio non è cambiato né con il passare del tempo né con il mutare delle condizioni: si è proceduto per aggiunte – di categorie, di problemi, di settori produttivi o sociali, di gruppi di cittadini – sotto la pressione di gruppi di interesse e di rappresentanze organizzate, sotto l’incalzare della (perversa) spinta di forze politiche autoelette a rappresentanti di istanze sociali e collettive e di interessi specifici innalzati all’onore di questioni generali e di interesse collettivo. E’ sufficiente scorrere i giornali – non negli articoli di indagine sociale (scarsi, per verità) ma in quelli dei commentatori – per verificare che a seconda del gruppo sociale di cui si sta occupando, questo è sempre definito come quello che “sta pagando il prezzo più alto”: che siano le donne, i giovani, gli studenti, i bambini, i precari, e qualsiasi altro gruppo oggetto di attenzione, le frasi sono le stesse e gli esiti anche, cioè sussidi subito e alate parole (non provvedimenti!) di riforma generale. Che l’Italia sia una delle capitali del turismo mondiale è noto (dovrebbe essere noto anche che perdiamo colpi da molto tempo e che ci sono cause precise e note di questo calo) ma è certo più facile mettere i panni del “partito dei ristoranti, dei bagnini e  dello spritz”, del “diritto dei ggiovani alla birra” o della fabbrica degli eventi che produrre politiche turistiche moderne.

E in tutta questa cascata di parole non si riesce a vedere alcun prospetto che dica quante risorse siano andate davvero, a chi, in quali settori economici, in quali aree geografiche, con quali effetti misurati. Per dirla in altro modo: i miliardi erogati in deficit, denari di tutti e debito di tutti, a chi sono andati? Che risultati hanno prodotto? Tutto giusto o si devono fare correzioni? E quali?

Il PNRR non può percorrere la stessa strada e la UE non farà sconti: non dobbiamo temerlo, dovremmo invece augurarcelo.

Fa parte della differenziazione anche un’altra serie di questioni che stanno elevando la temperatura politica e sociale.

E’ giusto non permettere una campagna di licenziamenti di massa ed è giusto avere il timore che possa succedere. Ma per quali settori, per quali aziende, in quali aree del Paese, per quale tipo di lavoratori, con quale tipo di imprenditori si teme questo effetto disastroso? Non si sa, e non si capisce – diciamo così – se è impossibile saperlo oppure nemmeno si cerca di saperlo. Sono gravi entrambi i casi, il primo perché significherebbe che siamo privi di strutture di indagine e conoscenza (ma davvero risulta difficile immaginarlo) e il secondo perché vorrebbe dire che si prende per buono ciò che i diretti interessati affermano su di sé, con tanti saluti alla nozione più elementare di cosa significhi dirigere e governare. Peraltro, il sospetto è decisamente autorizzato dal fatto che finora è proprio  andata così.

Eppure: non sembra così difficile sapere quali settori dell’economia hanno marciato a pieno ritmo anche in quest’anno disgraziato, quali ceti e classi sociali abbiano retto bene  e perfino aumentato il proprio reddito disponibile. Non dovrebbe nemmeno essere così difficile capire quali imprese (settori, aree) erano già prima del Covid in grave difficoltà  e da richiedere trasformazioni radicali degli obiettivi ed indirizzi aziendali, quali settori di lavoratori in condizioni di debolezza strutturale e così via. Non sfugge a nessuno che molte di queste domande sono retoriche e se ne conoscono bene le risposte.

Se ne possono fare di più precise. A tutti gli imprenditori che lamentano il blocco dei licenziamenti si dovrebbe chiedere i piani di sviluppo delle loro aziende, la programmazione della produzione e delle professionalità di cui hanno bisogno, degli investimenti e della ricerca cui intendono impegnarsi, quali contratti abbiano utilizzato finora e quali intendano utilizzare nel prosieguo, quali relazioni sindacali e quale contrattazione siano previste e così’ via. La programmazione dovrebbe essere una regola generale e permanente ma ancora più quando si è goduto e ci si appresta a godere di ingenti sostegni pubblici.

Provvedimenti generalizzati sono strumenti non adatti a risolvere i problemi e nemmeno a tamponarli, dato che sono insostenibili nel tempo medio e lungo: vale per i sostegni, per i sussidi, per il blocco dei licenziamenti e perfino per gli incentivi (vedi Alitalia, auto, ecc.). Certamente, un’altra strada significa dire dei sì e dei no, comporta assumere decisioni strategiche e di lungo periodo, vuol dire chiedere conto alle imprese di tanti impegni e lamenti cui non sono seguite azioni concrete e nemmeno quelle promesse, vuol dire interrompete la spirale dei sussidi al reddito e sostituirli con politiche di professionalizzazione e reimpiego, varare rigore fiscale come condizione per l’equità, vuol dire rilanciare la ricerca la cui componente privata è la più bassa d’Europa, vuol dire far funzionare e con obiettivi noti e chiari la scuola in ogni ordine e grado, cambiare lavoro e responsabilità (se proprio non si possono licenziare!) ai nostalgici del “massimo ribasso”, e così via.

Se poi questi processi venissero declinati anche su base territoriale, oltre che per comparti produttivi, si darebbe sostanza (e comunque si metterebbero a prova competenze e capacità reali) alle parole sul ruolo delle Regioni e dei comuni, almeno quelli più grandi e politicamente rilevanti, grandi assenti nella preparazione  del PNRR e non solo per responsabilità dei governi.

Si otterrebbe anche il notevole risultato di discutere – magari più accanitamente e magari avere anche qualche sano conflitto – non su temi ideologici o ideologizzati (licenziare sì o no, tasse di successione o flat tax, questioni identitarie o affidamenti religiosi e via di seguito) ma sulle questioni vere che non compaiono nei talk show ma – ne siano tutti certi – sono ben discusse ed anche decise senza che lo si veda se non a posteriori.

Governare, insomma. E combattere contro demagoghi e mercenari della politica. Se non ora, quando?