Nel nome del popolo italiano

CONTRIBUTO DI G. AUGURUSA Ci risiamo, l’incapacità della classe dirigente di questo paese di sottrarre alla bagarre politica qualsivoglia argomento, persino il più tecnico, sembra essere la cifra dei tempi. Una prassi consolidata quella della radicalizzazione delle posizioni, nella quale agguerrite squadre portatrici di paradossali verità assolute (paradossali in quanto plurime), si fronteggiano senza esclusioni di colpi.

Il dibattito pubblico finisce così per trasformarsi in una disputa che, invocata nel nome del popolo italiano, assume in realtà la forma ed i toni corporativi della rappresentanza di singole categorie, con buona pace dell’equilibrio tra gli interessi generali, necessario, al contrario, alla tenuta delle democrazie.

Il merito può attendere

Così accade che anche l’esondante dibattito sulla prescrizione (debordante rispetto alle priorità del paese), non sfugga a questa logica. Nel caso di specie, si fronteggiano presunti garantisti contro sedicenti giustizialisti, aggettivi fuorvianti entrambi perché né il rigore dei primi né il furore dei secondi corrisponde effettivamente ai probabili effetti attesi dalle rispettive proposte politiche. Ma si sa, “per ogni problema complesso c’è sempre una soluzione semplice, che però è sbagliata”, recita un noto aforisma di Bernard Shaw, cosicché basterebbe agli uni (i presunti giustizialisti), guardare i dati per scoprire un fatto ovvio, cioè che anche l’Italia giudiziaria, al pari di qualsivoglia altro settore, è stretta e lunga: nelle Corti d’Appello, epicentro delle prescrizioni, si estinguono il 2,9% dei processi a Milano, il 29% a Napoli ed il 48% a Roma. Non c’è cioè,  alcuna relazione statistica tra durata dei processi e tempi di prescrizione. Non pare quindi contro intuitivo supporre che se la norma è la medesima ed i risultati sono estremamente differenti, la causa vada ricercata altrove, magari nell’organizzazione del processo, nei riti alterativi, nelle dotazioni di organico dei Tribunali. Tutte questioni che richiedono però ben altro: risorse economiche e non certo un semplice provvedimento d’interruzione del contatore della prescrizione, sostanzialmente a costo zero.

Così come basterebbe agli altri (i sedicenti garantisti), soffermarsi sulla semplice costatazione che l’ardita proposta del ministro Bonafede probabilmente introdurrebbe la novità di un “fine processo mai”, che si andrebbe però ad accodare ad un più problematico “inizio processo mai”. Causa dell’arrivo di un numero di processi incomparabilmente superiore alla capacità di smaltimento, fatto che può determinare che già la prima udienza si tenga a distanza di anni dai fatti contestati; ancora una volta le ragioni non vanno per caso ricondotte a temi di carattere organizzativo?

Accade quindi che la prescrizione, pensata a garanzia dell’imputato, evidentemente reputando che a distanza di molto tempo venga meno l’interesse dello Stato a punire un comportamento penalmente rilevante, assume di fatto una funzione deflattiva del processo, cioè si traduce, suo malgrado, nello strumento che sovente evita lo svolgimento del dibattimento stesso, con buona pace delle vittime.

La toppa peggio del buco

Alla luce di queste considerazioni, tanto la legge entrata in vigore il primo gennaio che avrà l’evidente effetto tra qualche anno di intasare le Corti d’Appello, quanto i diversi lodi Conte che si avvicendano al solo scopo di contenere le intemperanze di Matteo Renzi, cioè necessari a garantire la tenuta del Governo, appaiono un pasticcio. In particolare, il combinato disposto tra  l’obiettivo della ragionevole durata del processo e la presunzione d’innocenza fino al terzo grado di giudizio (che verrebbe meno di fronte all’ipotesi, ad esempio, di differenziare il percorso tra condannati ed assolti nei primi due gradi), induce a pensare che più che ai Tribunali la nuova norma darà da lavorare alla Corte Costituzionale. Principi sacrosanti entrambi, s’intenda, ma al pari dell’obbligatorietà dell’azione penale, vera solo sulla carta da quando, ancora una volta per necessità di ordine organizzativo, la definizione di priorità tra i reati da perseguire l’ha resa di fatto solo teorica, sembrano nella discussione politica in corso, collidere tra loro. In altri termini, ogni modifica all’istituto della prescrizione se non accompagnata da una revisione complessiva del processo rischia di fare danni. A ben vedere l’ex Ministro della Giustizia Andrea Orlando ci aveva provato a poche settimane dal voto con un progetto organico che tanto entusiasmo aveva riscosso tra gli operatori della giustizia (qualcuno ricorderà vagamente la corposa proposta approvata con legge delega) , ma, anche in quell’occasione, il boyscout di Rignano, sì ancora lui,  preferì farsi guidare dai sondaggi anziché dal motto di Baden Powell (“…sempre pronti, in spirito e corpo a compiere il vostro dovere“), e la riforma andò in fumo in assenza di decreti delegati.

Non c’è due senza tre 
In quella coazione a ripetere che è la politica italiana, in veste diversa, ma con la medesima determinazione di un giocatore di poker, l’uomo che guida il partito detentore della golden share, che sussurra alla diaspora dei moderati, che ha fatto della velocità un mito e della mediazione, fino ad oggi, un fatto ontologico,tiene in ambasce l’Esecutivo e con esso il paese. Tuttavia, nessuno con un minimo di buon senso può davvero pensare che Renzi, l’ego della bilancia, punti a far cadere il Governo per andare a voto. I prossimi ventiquattro mesi si presentano come una sorta di lungo “semestre bianco”: referendum sul taglio dei parlamentari, conseguente necessità di una legge elettorale, un paio di leggi finanziarie, l’elezione del Presidente della Repubblica.  Troppo poco lo spazio disponibile e la convenienza per chicchessia ad andare al voto. Così il “giovane” Matteo, spregiudicato funambolo della politica al tempo dei populismi (“ai giovani piace brillare anziché vederci chiaro”,  ricordava Robert Musil), punta con tutta evidenza all’indicibile: sostituire Conte con un accordo largo per un Governo istituzionale o di scopo utile a superare i marosi fino alle prossime elezioni. Un nuovo Governo talmente largo da farci entrare anche l’altro Matteo, l’indicibile appunto. Improbabile? Il passaggio dal Conte uno al due, così come la Brexit e l’elezione di Trump,  dimostrano che oramai la politica è divenuta l’arte dell’impossibile. Cosa c’entri tutto questo con la prescrizione non è chiaro e tuttavia, accade rigorosamente nel nome del popolo italiano.