Alleanze, per i comuni e per il governo: non sono sbagliate le risposte, è sbagliata la domanda. Proviamo un’altra strada.

La strategia del Pd, uguale nella sostanza da Zingaretti a Letta, ha portato in una strada senza uscita a partire dalle più importanti città che voteranno in autunno. Va cambiato l’asse politico e strategico: c’è ancora tempo ma non molto.

Tanti anni fa, mi pare intorno al 1980-81, un alto dirigente del Pci, Fernando Di Giulio, coniò un termine che poi ebbe ampia notorietà ad opera di altri: la necessità di compiere una “rivoluzione copernicana” nella politica italiana, mettendo al primo posto le scelte programmatiche e a queste far seguire – sul filo della coerenza e della costruzione di intese avanzate – le alleanze necessarie per formare governi e maggioranze parlamentari coese e in grado di sostenere un impegno riformatore.

Copiare le buone idee è un merito (nessuno, nemmeno con la DAD, copierebbe  il compito da un “diversamente preparato”) e se ne vedrebbe  tutto il valore proprio in questo periodo.

La maggioranza che sosteneva il  Conte1 è morta nel 2019, anche se sopravvivono molte delle sue scelte (e Salvini esce a testa alta da un processo che era facile ritenere finisse così). Quella che ha sostenuto il  Conte2 si è svuotata alla fine del 2020. Quella attuale è nata per la necessità di definire il PNRR e il programma delle riforme che ne è non solo parte integrante ma soprattutto condizione per la realizzazione (e per avere le risorse della UE, cosa che si tende a dimenticare). Tutte le affermazioni altisonanti su orizzonti strategici durano lo spazio di un mattino e autorizzano il sospetto che portino anche un po’ di sfiga: il “punto fortissimo di riferimento ditutte le forze progressiste” che Zingaretti vedeva in Conte sembra appassito nelle tortuose vicende del Movimento5Stelle; il giusto tentativo di spostare quel Movimento su posizioni avanzate (talvolta su posizioni qualsiasi!) pare sia un fattore di sfarinamento. Pare, dico, anche se a molti sembrava inevitabile già dall’inizio, essendo quel Movimento il frutto di una decomposizione di sistema e non di composizione di nuovi livelli di innovazione politica. Il PD, nel passaggio da Zingaretti a Letta ha guadagnato un eccellente Presidente di Regione, finalmente libero di concentrarsi su ciò che gli riesce meglio e con indubbio vantaggio dei cittadini del Lazio (di Roma non si può dire, finché c’è la Raggi in circolazione e anzi la vicenda delle candidature a Roma segna il Pd peggio della lettera scarlatta: in  altri tempi si sarebbe fatto un commissariamento lampo, ma erano appunto altri tempi, anche se qualcuno che andrebbe commissariato oggi c’era già e c’è sempre stato). Però la gestione Letta, salutata con interesse da molti (anche da chi scrive, per quel che conta) come una possibilità cui augurare successo, si sta rivelando non diversa: sotto il profilo strategico, l’uno e l’altro sostengono la tesi del nuovo centrosinistra con PD, Leu, 5S; l’uno e l’altro lavorano per una intesa tra queste forze per i comuni che voteranno in autunno. Ma l’uno e l’altro si sono schiantati sulla inattendibilità 5S. Peraltro, la scelta strategica così vantata era in realtà il prodotto di un semplici esercizio aritmetico, anzi il più semplice, il primo che si impara(va) alle elementari, cioè la somma. Il problema  è che cosa sommi e come lo fai (mai le pere con le mele, dicevano le maestre antiche, che non avevano frequentato le facoltà di pedagogia ma ci siamo poi laureati lo stesso): se sommi le percentuali delle elezioni politiche hai un risultato, se sommi quelle delle amministrative ne hai un altro, se sommi i sondaggi ne hai un terzo. Se invece fai la somma degli elementi razionali…cambi strada. Soprattutto prima che la strada cambi te.

Ecco: forse questa è la soluzione: cambiare strada. Provare a mettere al primo posto programmi  veri e seri per le città che votano, con quegli elementi di innovazione indispensabili dopo la tempesta del  Covid. Provare a chiamare a raccolta forze reali (non movimenti presunti o indignazioni di vario genere, nobili posizioni di principio normalmente poco avvezze al governo locale – e a quello generale ancora meno) che nella società dei corpi intermedi sono presenti e assistono incerte e sbalordite.  Provare a raccogliere culture e valori innovativi a partire da quelli ambientali presi sul serio, provare a rispondere a istanze sociali lasciate ai margini da tempo (case popolari e per l’affitto, non mutui per la pria casa). Prendere di petto e sul serio il fondamento del lavoro come asse della ricostruzione del paese. In questo modo si potrebbe anche dare una sponda per una diversa prospettiva a partiti e partitini a sinistra ma anche di centro democratico che coltivano la loro nicchia minore in cui parlare è inversamente proporzionale alla dimensione del consenso: potrebbe così avviarsi anche un processo per diversi assetti, percorsi di rifondazione dei soggetti politici ben dentro alle risposte da dare alle nuove contraddizioni e problemi della società italiana.

Le alleanze verranno: saranno sufficienti? Si vedrà dopo, come del resto avviene sempre, ma si sarà fatto un lavoro di costruzione che darà i suoi frutti, liberato anche dal terrore della coalizione avversa che certo seguirà altre strade.

Certamente, il sistema elettorale maggioritario costringe a predisporre prima le coalizioni e questo, in una situazione come quella italiana oggi – quando è prioritario ristrutturare il profilo dei soggetti politici, creandone di nuovi visto lo stato di quelli esistenti, richiederebbe un sistema di tipo proporzionale: tuttavia, nei comuni forse (forse) c’è un clima diverso se si lasciano fuori i temi nazionali, come sarebbe opportuno ed anche utile. Si giocano partite diverse e tenerle insieme potrebbe questa volta essere un ostacolo e non un vantaggio. Sul piano nazionale, invece, l’opzione per un sistema proporzionale va ripresa. Letta ha commesso un errore, fin dal primo giorno, rilanciando l’idea del maggioritario, le condizioni per il quale oggi si sono completamente sfarinate: ma non era difficile prevederlo e anche su Contropiede lo si era detto e argomentato. Riconoscere gli errori è condizione per la buona politica: insistere su di essi è condizione per un doloroso disastro.