Il fallimento storico del PD: le radici e il futuro

Nella realtà italiana fin dagli anni ’90 la tensione verso il progresso, verso più libertà e più giustizia, si è espressa nelle istituzioni soprattutto attraverso il Partito Democratico e i suoi predecessori. Da allora, più libertà e più giustizia, in qualche aspetto, le abbiamo avute – ma le diseguaglianze sono cresciute, il benessere si è ridotto, i cittadini sono più sfiduciati e innervositi.

In sostanza, siamo meno felici. Se un percorso si giudica dai risultati, perciò, oggi è indispensabile ripensare criticamente a questi quindici anni, chiedersi se c’erano errori nelle premesse concettuali, se più tardi abbiamo preso percorsi sbagliati, quali svolte dovremmo far maturare oggi.

Sia un merito o una colpa, sono stato nel 2007 fra i fondatori del PD e conservo con cura il cartoncino che lo attesta. Eppure, già allora ero perplesso su ciò che si diceva e sul “non detto” che percepivo.

La politica progressista del Novecento, in Europa occidentale, si è fondata principalmente su tre grandi tradizioni: il filone socialista, quello liberaldemocratico e le forze non conservatrici di ispirazione religiosa. Eppure, alla svolta del secolo, già si avvertiva una certa stanchezza di quei filoni, un essere inadeguati a confrontarsi a nuove sfide (ecologia, globalizzazione, questione di genere) usando gli strumenti del passato, validi ma incompleti.

In Italia, alcuni intellettuali (Salvati, Scoppola per primi, poi altri molti) ritennero di trovare la risposta in un progetto diverso (lo chiamarono “riformista” ma non voglio usare questa parola svalutata): una politica nuova, elaborata già all’origine per rispondere alle nuove sfide che ho citato. Non un nuovo partito, dunque, ma un pensiero nuovo. Esso si sarebbe espresso anche in una forza politica (il Partito Democratico) ma la radice stava nel nuovo pensiero. Sarebbe stata davvero una svolta storica.

Giusto! Ma il nuovo pensiero non c’era allora e non siamo stati capaci di pensarlo. Non se ne sente parlare spesso – ma forse proprio qui sta il grande fallimento del PD. Per corrispondere a questa ambizione ci sarebbero voluti Marx o Tocqueville, non abbiamo avuto nemmeno Dahrendorf o Carlo Rosselli. In realtà, come pensiero nuovo, dobbiamo riconoscerlo, l’esperienza democratica non ha prodotto davvero molto.

Aspettative troppo alte? Forse poteva bastare una sintesi non conflittuale dei grandi filoni del Novecento. Ma fin dal Lingotto era chiaro che Il PD non avrebbe potuto esserlo. Non aveva nulla della tradizione del socialismo europeo, quello che non aveva bisogno di essere “liberalsocialista” come il crociano ircocervo – perché la tensione verso la libertà di tutti è sempre stato suo elemento costitutivo. Semmai vi arrivava la confusa tradizione del “partito degli onesti”, vero errore concettuale. Non aveva nulla del liberalismo renano e giscardiano. Semmai vi arrivava la tradizione liberal anglosassone, intransigente fino al politically correct su alcuni aspetti, sorda a tutte le “libertà da”, condita da certa presunzione e arroganza di matrice azionista, PRI e Banca d’Italia. Vi confluiva solo una parte della tradizione del cattolicesimo politico, quella forse più sensibile ai temi sociali ma molto arretrata nel costume e poco capace di indipendenza rispetto ad Oltretevere. Tenere insieme queste tre patologie presupponeva Veltroni, l’uomo del “ma anche”. E il veltronismo, il voler tenere insieme il diavolo e l’acqua santa, ha appesantito anche le gestioni migliori degli anni successivi, quelle di Bersani e Zingaretti. (L’esigenza di “tenere insieme tutti” e non offendere nessuno, purtroppo, conduce anche all’auto censura, ai non detti, a quel vago sospetto di ipocrisia che rende tanto sgradevoli certe serate).

Mancata l’identità nuova, rifiutate le identità precedenti, non è rimasto altro che “il partito della nazione”: “La vocazione maggioritaria del Partito Democratico, il suo proporsi come partito del Paese, come grande forza nazionale, si manifesta nel pensare se stesso, la propria identità e la propria politica, non già in termini di rappresentanza parziale … ma ….. in una visione più ampia dell’interesse generale e in una sintesi di governo”. (Manifesto del PD, 2007)”.

La classe dirigente del PD, non a caso, si è espressa da sempre nei ruoli istituzionali. Unica voce fuori dalle istituzioni, quella del segretario del momento. Al resto del partito, nessuna importanza, nessuna attenzione: si ricorda forse un qualche gesto, azione, traccia persino di uno qualunque dei vicesegretari? E ovviamente il partito è decaduto nel modo peggiore. E i nostri Sindaci, Presidenti di Regione, Ministri non hanno più avuto punti di riferimento, contrappesi o giudici collaborativi ma severi, capaci di esprimere saggezza collettiva. Abbiamo avuto “uomini soli al comando”, di varia qualità, talvolta anche ottima.

Pensarsi “Istituzione” e non “parte”, contiene una doppia trappola: da un lato la condanna a restare al governo sempre e comunque, anche dopo le peggiori sconfitte, per “responsabilità”, per “senso dello Stato”, e quindi l’adesione, non di rado incomprensibile ai profani, a governi di intonazione conservatrice, antipopolare – dall’altro, l’accettare di ridurre l’ agire politico e nelle istituzioni alla “buona amministrazione”, ai piccoli risultati, al “meno peggio” (e mi limito agli esponenti migliori, in buona fede. Altri semplicemente interpretano la politica come mestiere, professione).

Anche per reazione, fra i simpatizzanti e nella base del partito è lievitato in modo inarrestabile l’atteggiamento alla Nanni Moretti:  “con questi dirigenti non vinceremo mai”.  Insoddisfazione confusa, rabbia per le sconfitte rivolta a tutti, colpevoli e incolpevoli, certezza che “si potrebbe far meglio, se solo si volesse”, facili innamoramenti per questa o quella novità. Un’ atmosfera esigente e querula insieme che non sarebbe stata tollerata nelle severe sezioni frequentate da me ragazzo. Invece, vien subito alla mente il ricordo di Civati e del civatismo, Occupy PD dopo i 101 mai davvero capiti, ma anche l’amore illimitato per Ignazio Marino (persona onesta e amministratore di poco successo) e soprattutto il sostegno al Renzi del 2014, che illuse tante persone intelligenti e in buona fede. No, Renzi non è stata solo una brutta parentesi, caro Presidente D’Alema: la banda dei furbi opportunisti del “giglio magico” si è impadronita del partito sfruttando debolezze, ingenuità e colpe degli altri.

Una sinistra debole è stata incapace di difendersi da chi le idee, invece, le ha avute chiarissime: influenze di Berlino e di Parigi, pretese di Francoforte, gruppi di pressione economici e loro intellettuali di riferimento, sistema dei media mainstream. Da qui il nostro oscillare fra proclami neoliberisti, pratiche di indulgenze corporative e linee economiche mirate piuttosto all’austerità e al rigore (per gli altri, ben s’intende). Da qui anche la rimozione di qualunque giudizio su quel passato che non si ama ricordare: accettazione silenziosa dello strangolamento della Grecia, lettera Draghi Trichet 2011, “pizzini” di Enrico Letta a Monti … Tra l’altro, sia chiaro che le privatizzazioni decise senza valido criterio di scelta, i “tesoretti” scoperti per caso, il pareggio di bilancio in Costituzione sono venuti tutti prima di Renzi.

IL futuro

L’esistenza del Partito Democratico, lo sappiamo, da quindici anni rende impraticabile qualunque progetto alternativo e non velleitario a sinistra, come hanno verificato a loro spese i compagni di Articolo 1. Qui è la contesa, solo qui si può ripartire verso il futuro. Sì, ma per andare dove?

Ripartirei dalla lontana contrapposizione fra Michele Salvati e il D’Alema della “cosa 2”, quello che diceva: voglio che l’Italia diventi “Un paese normale” come i grandi paesi d’Europa, con una destra conservatrice e una sinistra socialdemocratica (quando si parla del pensiero di D’Alema, si deve sempre precisare: in quale fase?). Salvati sostenne l’impossibilità di questo sbocco, poiché le grandi tradizioni comuniste e post-comuniste e del cattolicesimo democratico mai si sarebbero fuse in un progetto progressista così estraneo alla loro storia. Perciò il Partito Democratico su nuove radici era inevitabile, era un’esigenza storica.

Va bene, Salvati, ci abbiamo provato. Ma con quali risultati? Un avversario oggi ci definisce così: “un partito delle élites, con riferimenti sociali ed elettorali che non hanno nulla di assimilabile a ciò che dovrebbe essere un partito della sinistra, con pochissima rappresentanza nel mondo del lavoro dipendente e autonomo, in cui si riconoscono solo ceti dirigenti, imprenditori, liberi professionisti e intellettuali, senza né operai né disoccupati, debolissimo al sud, senza riferimenti nelle aree più povere del paese, dello sfruttamento, dell’emarginazione e della sofferenza. Un partito per ultra 65enni, che ha perso totalmente il rapporto con le giovani generazioni” (R. Biscardini). C’è della malevolenza – ma c’è anche troppa parte di verità per trascurarla.

Ci abbiamo provato per vent’anni, Salvati, ora prendiamo atto che quel progetto di portata storica è stato un fallimento, un fallimento storico. Ora anche basta. Ora torniamo a voler essere un paese normale, con un partito della sinistra di governo che non pretenda di rappresentare tutti “gli uomini di buona volontà” ma abbia invece il coraggio del conflitto. E voglio essere chiaro: conflitto non solo verso gli evasori fiscali, gli organizzatori di finte cooperative e altri sfruttatori. Giusto, ma troppo facile. No, conflitto verso tutti i privilegi e i privilegiati di oggi, anche quelli educati, civili, che parlano inglese e avrebbero orrore del commercio con le olgettine. I Mario Draghi, per intenderci. Se no, come potremmo fare, non per finta, la lotta alle diseguaglianze?

Seppelliamo il concetto di partito “di centrosinistra”. Un partito può essere di centro o di sinistra, sinistra razionale, non velleitaria, ma sempre sinistra. Di centrosinistra può essere una coalizione, per governare il paese in base ad un programma di mediazione, se i numeri lo rendono necessario, non un partito che voglia avere un’anima.

Ci vuole un partito nuovo. Darò un dispiacere a me stesso e a molti compagni cui sono affezionato: non credo che dobbiamo fare del nuovo PD un partito “socialista”. I filoni del Novecento devono stare alla base del pensiero/partito nuovo ma essi non bastano più: in questo i “Salvati” avevano ragione. Ripeto: il tema dell’ambiente, la questione di genere, le ingiuste diseguaglianze per paese, la globalizzazione parziale e sbilanciata, i movimenti di migrazione. Genericità condivise da tutti? Forse ma intanto abbiamo il referendum trivelle, perdurante diversità salariale nel paese, accordi con Bija. E anche sui i temi tradizionali della sinistra, lavoro, redditi, casa, istruzione, welfare … mah. Forse, al partito rinnovato basterà fare per davvero quello che oggi scriviamo nei documenti.

Un ultima riflessione. Siamo più nervosi e infelici, ho detto, e cerco di capire. Mi pare che, rispetto a decenni fa, l’equilibrio del potere fra il cittadino e le grandi organizzazioni pubbliche e private si sia molto sbilanciato a favore di queste ultime. Abbiamo lasciato deperire i corpi intermedi, non abbiamo controllato il formarsi di attori giganti. Oggi, per il singolo, risultano spuntate sia le armi della sinistra – la lotta politica organizzata – sia quella della destra – la concorrenza. Cosa importa a Microsoft se io singolo decido di passare ad Apple? Da qui, l’incredibile prepotenza dei giganti verso tutti gli utenti e da qui, una parte del disagio, del nervosismo del cittadino verso le istituzioni. Come posso praticare lucidamente la partecipazione politica, se ho litigato per una mattinata col sito del mio comune, se il SSN mi propone la vista specialistica fra un anno (ma a pagamento domattina), se non riesco ad oppormi ad una fatturazione indebita di TIM? Il Partito deve costruire contrappesi: regolazione sul lobbying, leggi antitrust, class action facilitata, ruolo del difensore civico da reinventare …

Rappresentare una parte. Ma quale? Nei quindici anni scorsi gli svantaggiati hanno smesso di identificarsi in noi, tornare ad avere il loro sostegno mi pare poco plausibile sul breve. Per fortuna del paese, negli anni passati l’M5S, un movimento politico un po’ equivoco, ha svolto una funzione fondamentale, simile a quella dei socialisti di fine Ottocento, avvicinare gli aggressivi- sfiduciati al sistema politico. Inutile ricordare gli infiniti e gravi difetti del Movimento: questo loro ruolo ne fa un elemento imprescindibile di qualunque progetto politico che voglia essere sinistra. (Giungo a dire che la “normalizzazione” portata da Conte non è soltanto positiva – rischia di fare del Movimento un inutile doppione del PD).

Concludo con uno sguardo all’interno del Partito. Con molti rispettabili compagni, in questi anni, abbiamo cercato di “fare sinistra”, senza troppi successi ma salvando l’anima. Per il futuro però non bastano più le battaglie difensive, di sopravvivenza, per mantenere questa o quella posizione, per arrivare ad un’agibilità politica derivata da trattative, mediazioni …. Sono state battaglie giuste, dovute, che dall’interno capiamo e giustifichiamo, che abbiamo sostenuto, ed è giusto rivendicare la nostra coerenza. Ma ormai bisogna fare un salto di qualità. Dobbiamo avere il disinteresse e la generosità di abbandonare le nostre asfittiche frazioncine, le sinistre PD, gli articoli Uno, i piccoli successi possibili e rischiare tutto in nome di un progetto diverso. Lasciatemelo chiamare un sogno. Se avremo capacità e successo, potrà ancora chiamarsi Partito Democratico, ma sarà un’altra cosa