La destra fa la destra: che vi aspettavate? E lo fa in modo arrogante, approssimativo e vendicativo

Rivincita storica, idee reazionarie sui diritti individuali e collettivi, incapacità di mantenere un profilo degno delle responsabilità che si hanno. Sarà stato di destra ma aridatece Malagodi.

Ricordate le frasi di Giorgia Meloni in procinto di assumere l’incarico di Presidente del Consiglio e poi nuovamente mentre costruiva il gruppo dei ministri? Tutto un fiorire di ottimismo, tutto un affermare trionfalmente che ci sarebbe stato un Gabinetto di alto profilo, che si stavano accertando le disponibilità di persone di specchiato e riconosciuto valore e integrità.

Naturalmente non si tratta né del primo esempio di roboanti promesse e sensazionali annunci né siamo così sprovveduti da non vedere che il livello generale e medio del personale politico della fase attuale non è così gran cosa. E – per di più – anche il famoso “governo dei migliori” ha più volte mostrato insospettabili limiti, dato che dalle aule universitarie ed anche da prestigiose istituzioni sovranazionali il passaggio alla politica fatta delle tante incombenze quotidiane, dell’incontro scontro con una struttura amministrativa problematica e della necessità di costruire il consenso tra posizioni diverse, tale passaggio è estremamente complicato.

Ma naturalmente, non si vuole qui sostenere che la politica è una difficile professione cui non tutti sono adatti, che non è propaganda e twitter, che la superiorità che ciascuno immagina di avere sugli altri va dimostrata in concreto tutti i giorni. Tutto vero ma NON è questo il problema del governo Meloni. Diciamolo chiaro: magari fosse questo!

No, siamo dinanzi a tre questioni ciascuna significativa e – pensiamo – grave.

La prima questione è la approssimazione con la quale vengono affrontati temi complessi e difficili. Fino a ieri, il compito di chi stava all’opposizione era tutto sommato semplice: un campo senza concorrenza, la possibilità di alzare il tono della voce anche con frasi apocalittiche, la campagna elettorale permanente. Fratelli d’Italia aveva poi due grandi vantaggi: la sua presenza al governo risaliva ormai ad un tempo relativamente lontano, e il centro sinistra aveva scelto la logica suicida di negare le elezioni per via delle emergenze, perché avrebbe vinto la destra, perché non c’era una legge elettorale (anche perché l’unica cosa seria fatta da Zingaretti era stata la scelta per il proporzionale mentre il neo segretario Letta aveva iniziato la sequenza dei suoi enormi e numerosi errori tornando al maggioritario) e perché si era schierato come versione politica dell’establishment economico ed istituzionale.

Ma dal governo non puoi più dare voce a tutti i ribellismi e dolori di stomaco che covano nel Paese: vincere le elezioni può anche essere frutto di una combinazione fortunata (ma per FdI non è certo così) ma poi si deve cambiare passo. Nulla di tutto questo, se non due scelte di fondo sperando che possano reggere tutto il resto. La prima è un incrollabile schieramento atlantico: non tanto in sé, perché dal Presidente Mattarella al PD la compagnia è tanto eccellente quanto singolare, quanto perché si sta facendo – dall’uso del linguaggio a quello del sistema della comunicazione – della politica estera l’architrave di tutto, cioè la lotta per la civiltà. Mi ero perso il peggio degli anni 50, ero un bambino, ma recupero alla grande adesso. La seconda è la strategia europea: Meloni è impegnata come capofila nella costruzione di un ribaltamento dell’asse politico istituzionale di Bruxelles. Ben lontana dall’essere isolata – le solite frasi da twitter che spopolano in una sinistra che pensa poco – in Europa, è invece al centro di un disegno preciso e pericoloso. Non facile, pieno di contraddizioni, però è un disegno strategico cui si contrappongono balbettii. E anche qui l’architrave è l’asse – tutto di politica internazionale e militare – con Polonia, Baltici, Est: subito dietro traspaiono gli inglesi, e la posta in gioco è se e come evolverà il voto in Germania. Che dire? Speriamo nella Spagna ma non sembra moltissimo.

La seconda questione è l’incapacità di capire quale atteggiamento deve assumere chi dirige l’istituzione e tanto più lo Stato. Ci sono comportamenti che hanno rilevanza giuridica, penale o civile e poi ci sono comportamenti e atteggiamenti che sono o no consoni al livello cui ci si trova. Il corto circuito tra comportamenti e questioni giuridicamente rilevanti è lo stesso che abbiamo conosciuto nel trentennio berlusconiano, con la finta discussione tra garantisti e non, con tutte le parti accomunate dal clamore con il quale accoglievano le frasi o i comportamenti dell’avversario. Un presidente degli Stati Uniti, a chi gli faceva presente che Noriega (ve lo ricordate? quello di Panama) era un figlio di…, replicava con “certo, ma è il NOSTRO figlio di…”

Regole, comportamenti, atteggiamenti dipendono dalla appartenenza, dunque. E se nessuno ha mai chiesto conto a Di Maio e soci delle vergognose frasi su Bibbiano, è chiaro che tutto diventa lecito. A meno che non ci sia una sentenza: allora inizia il festival abituale, in cui avvocati, magistrati, indagati fanno girare notizie e carte perché vanno fatti i titoli e ciascuno ha un ruolo da giocare. Altro che le proposte di Nordio, che sembra in preda ad ansia da rivincite personali: quelli sono i circuiti da rompere e le sue leggi non lo fanno.

In un Paese decente (si ha pudore a dire normale) ministri si sono dimessi perché beccati ad aver copiato mezza tesi di laurea. Meglio avere ministri non laureati, si potrebbe dire. Invece si dovrebbe promuovere qualche azione esemplare per censurare questi comportamenti. La Russa, dopo tutto ciò che ha fatto e detto in questi mesi, esce con le dichiarazioni – sempre inaccettabili ma, in un empito di buonismo, comprensibili in un padre – vergognose per la seconda carica dello Stato? Bene, appena torna il Presidente dall’America Latina gli si può fare presente che non si riconosce quel ruolo e intanto non si partecipa ai lavori del Senato quando presiede lui o altre forme ancora di disobbedienza civile. E se qualche giornale dicesse di non voler ospitare le sue parole…ma forse questo è troppo. Santanchè? A parte che, come Calderone e Crosetto, c’è ben più di un sospetto di conflitto di interessi – ma su questo il centrosinistra ha già fatto vedere il meglio di sé dal 1994 ad oggi – chiedere che facesse dichiarazioni In Parlamento è parso un rito stanco e inutile, anche perché non risulta che sia stata incalzata da una “opposizione” che avrebbe dovuto rifiutare la manfrina. Infatti, il giorno dopo sono iniziate le notizie di fondo che Santanché aveva tralasciato.

La terza questione è la vena pulsante della rivincita storica. In altra occasione torneremo sulla questione fascismo. Qui ci sono un paio di temi rilevantissimi che ruotano intorno alla “occasione storica” della destra. Intendiamoci: lo è davvero – della serie “quando gli ricapita?” – ma può essere giocata in due modi. Il primo è dimostrare con l’opera di governo di avere idee, prospettive, un disegno di lungo periodo per lo sviluppo della società italiana. Ma quel che si vede è invece la costante spinta a ridisegnare la storia d’Italia, non con una ricerca scientifica (quella c’è e mi spiace per loro, dice tutt’altro), nuove fonti e nuovi documenti ma con il ripescaggio di vecchie cose trite e ritrite con lo spirito della rivincita e nessuna ambizione di costruzione. In particolare, si vuole riscrivere la storia degli anni dal 1960 al 1980, come minimo: eppure è già molto, visto che sono gli anni del neofascismo assassino, della strategia delle stragi e della tensione, del filo doppio con gli apparati dello Stato, con Stati fascisti europei e non solo, con la Nato.

E – ecco l’altro tema – la rivincita sullo sviluppo dei diritti di libertà e di civiltà: un’idea reazionaria di Dio, Patria e famiglia, libertà individuali da comprimere se non corrispondono alla morale di alcuni (loro ma solo in pubblico, perché per il privato contare le famiglie “regolari” sarebbe un bel giochetto), libertà collettive e sociali a partire dal welfare nemmeno a parlarne. Ma anche quando ci sarebbe lo spazio per aprire contraddizioni, far risaltare le incapacità, si preferisce suonare le trombe di guerra su tutto, gridare al fascismo che torna e allo scasso costituzionale: forse una riflessione più attenta e di merito avrebbe consigliato un altro atteggiamento sulle recenti misure in materia di giustizia, provare su questo a dare un ruolo alla discussione in Parlamento e così via.

A fronte di tutto questo, non pare che si stia sviluppando una azione incisiva. Si seguono le strade formali che pure si sa non costruiscono (le audizioni in Parlamento), si battibecca nel solito florilegio di dichiarazioni tutte sempre uguali tra partito e partito, tra esponente ed esponente, si combatte la guerra dei pupi sulla spartizione della Rai, come se ci fosse qualcuno che vi si è sottratto in passato (forse con migliore educazione, savoir faire e qualche attenzione in più per le capacità dei singoli), si fa la voce grossa sulle concessioni balneari (ma la Bolkestein è del 2006: indovinate quale partito è stato più al governo da allora?) ma poi tutto procede come al solito.

Forse (forse) si deve cambiare passo. Azioni di sanzione politica e morale, concentrare l’attenzione e lo sforzo su pochi temi di grande rilievo, sottrarsi alla coazione a ripetersi e provare il gusto della posizione originale, non da mainstrem suggerito e sponsorizzato da grandi giornali, provare a lanciare qualche campagna di massa, non di “ascolto” ma di risposta. Che vuoi ascoltare? Cosa brucia si sa, cosa fare anche, ciò che manca e decidere su quali assi e indirizzi rispondere: le alleanze nasceranno così, dal vivo delle cose e non dal freddo dei tavolini da bar.