Guerra, in Palestina, non terrorismo

Anche le notizie crudeli che giungono dal Medio Oriente parlano di un mondo che non ha più tessuto connettivo. Sentiamo invece parole così abusate e ripetute da aver perso efficacia. C’è qualcuno che alza la testa e cerca di guardare più lontano?

Notizie terribili, quelle che vengono da Gaza e Israele. Non sono nuove né inattese ma questo non sposta di un millimetro la gravità della situazione: da ormai 75 anni – ma a ben vedere da quasi 30 anni prima – “noi”, gli osservatori nel caldo delle nostre case, conviviamo con un rischio permanente mentre “loro”, arabi ed ebrei che laggiù cercano di costruire vita e futuro, in quel rischio vivono immersi e subiscono gli scoppi improvvisi che trasformano il rischio in certezza.

Ripeto le date: da 75 anni se contiamo dalla prima guerra in Palestina, da altri 30 precedenti se consideriamo la dichiarazione Balfour e gli accordi post Prima guerra mondiale, i contrasti spesso tragici tra popolazioni arabe residenti e i coloni ebrei affluiti dall’Europa e poi quelli tra ebrei e inglesi, con un terrorismo altrettanto tragico. E guerre aperte, guerre striscianti, espulsione dai luoghi storici e guerre dell’acqua, insediamenti di coloni e fattorie in aperto spregio e sfregio alle dichiarazioni ONU, tentativi di trattativa e di pace abortiti sull’altare del nazionalismo e dell’integralismo, rivolte popolari arabe e una vita compressa dalla paura in Israele, debolissimi poteri civili aggravati da corruzione endemica e uno stato democratico nelle sue forme sempre più messe in discussione da militarismo e integralismo religioso. A contorno – ma spesso è stato il piatto principale – stati arabi o musulmani che hanno utilizzato il dramma palestinese come scudo e pretesto per le proprie politiche, stati europei e occidentali che analogamente si sono fatti scudo e pretesto dei diritti degli ebrei per loro convenienze geopolitiche.

Ecco perché ci sono troppe note false in giro fin da queste prime ore di guerra.

Intanto e in primo luogo: calcare l’accento sul terrorismo è già il primo passo per distorcere la comprensione dei fatti e le possibilità di recupero ad un confronto diplomatico. Con terrorismo si apre la strada alla ripetizione di schemi che orientano immediatamente allo schema buoni/cattivi: dietro lo schermo della parola ci sono decenni di tragedie, di pericolo quotidiano, di roboanti richiami ad emergenze e a fittizie e convenienti unioni sacre, di guerre sbagliate e illegali che hanno peggiorato la situazione nei paesi interessati direttamente e nello scenario globale. Parlare di terrorismo vuol dire degradare il livello del problema come è visto e vissuto dalla parte di ciò accusata.

E poi: che c’entrano i paragoni con l’Ucraina? Naturalmente c’entrano eccome, perché con una guerra così aspra in corso e l’assenza totale di istituzioni sovranazionali forti, autorevoli e lungimiranti (nemmeno il Papa riesce ancora ad avere il sostegno necessario!) ogni punto di tensione nel mondo può crescere fino a dimensioni incontrollabili. Ma le frettolose analogie di queste ore sono il secondo tassello della negazione di uno stato delle cose che è di lunga, lunghissima durata. E le parole di unità, sostegno, solidarietà vengono accompagnate dal corteo di aggettivi risonanti con cui sdegno e determinazione diventano una parata di pennacchi la cui ripetizione assomiglia tanto a chi parla ad alta voce in una stanza buia per farsi coraggio. E anzi la sequenza fatto-condanna-rilancio-chiamata allo schieramento è già in marcia.

Terza riflessione. Solidarizzare per le vittime, tanto più se civili, è un dovere morale e politico ma questo dovere sarebbe tanto più efficace se medesima prontezza, determinazione e se gli stessi aggettivi risonanti si fossero sentiti nelle decine di occasioni che hanno punteggiato parecchi decenni di occupazioni illegali, di trattamenti discriminatori, di leggi contro “minoranze” nazionali che poi tali non sono. Evidentemente i sacri principi universali non sono esattamente per tutti, per non parlare dei diritti umani.

Hamas ha da tempo soppiantato l’Autorità palestinese, nella Striscia di Gaza e, temo, anche altrove. Certo ci sono potenti stati della regione, dalla Siria all’Iran, che sostengono Hamas, ma non si può non vedere che l’Autorità da molto tempo non garantisce più né il governo dei luoghi né la guida politica, vorrei dire anche morale, del popolo palestinese. Molti di noi hanno conosciuto il periodo storico di Arafat ma – diciamo la verità – da troppi anni quella è una leggenda sconnessa dalla realtà. Rapporti con le potenze regionali (meglio: pressioni da esse), sensazione di un mondo concentrato sull’Ucraina e percezione delle difficoltà del governo Netanyahu possono aver spinto ad una azione militare di notevole efficacia almeno iniziale. E certo la crisi che lo stato israeliano attraversa da mesi – con l’opposizione alle norme reazionarie volute dal governo – devono aver indotto a pensare che si potesse approfittare di una almeno apparente debolezza: del resto, se gli efficientissimi servizi di informazione non hanno percepito nulla di quanto si stava preparando, c’è del vero nell’idea di debolezza.

Al tempo stesso vanno però tenute in conto due questioni. La prima è che non è mai successo che un attacco arabo – di alcuni paesi o di tutti, di eserciti o di gruppi, di rivolte popolari e di manovre più complesse – reggesse più di qualche giorno e soprattutto reggesse alle reazioni militari di Israele. Più ancora, da nessuna vicenda precedente il popolo palestinese ha tratto miglioramenti della propria condizione, anzi, forze (che spesso chiamiamo oscure ma anche questa è una convenzione) potenti hanno bloccato tutti i varchi verso soluzioni diplomatiche, non esitando nemmeno davanti all’omicidio politico, in Egitto come in Israele.

E poi, anche qui come prevedibile, le profonde spaccature in Israele si sono al momento richiuse: primum vivere e rispondere all’attacco, poi vedremo se e come riprenderà lo scontro politico interno. Non vorrei che anche su questo ci fossero arretramenti.

Un attacco, quello di Hamas, che non è né proditorio né terroristico: è una scelta politica precisa, di guerra aperta e alle guerre aperte si deve avere la forza e i nervi saldi per reagire, non dicendo banalità del tipo “Israele ha il diritto di difendersi” – è chiaro che lo ha ed è anche più chiaro che lo fa e lo farà a prescindere dalla parole occidentali, di cui ha dimostrato più volte di poter fare a meno – ma sviluppando una politica. Netanyhau parla di guerra, gioca ovviamente la carta dell’unità nazionale a difesa del Paese e così dimostra di avere chiara la posta in gioco. Ma “noi”?, cioè la comunità internazionale? Pensiamo di avere chiaro tutto parlando di terrorismo?

Diciamo la verità: parlare di terrorismo non vuole dire solo fare appello alle forze oscure da cui ciascuno deve guardarsi ma soprattutto trasforma un dramma globale in questione “locale”, nega diritto e riconoscimento ad una parte (che sia quella che aggredisce è secondario, visto che aggressori e aggrediti si scambiano i ruoli da decenni). E così si abdica al dovere di operare per la pace.

Ritorno ai confini del 1967? Applicazione delle numerose decisioni ONU – magari con opportuni richiami e vibranti appelli al diritto internazionale che da circa 60 anni non è rispettato – sugli insediamenti? Superamento delle norme che stabiliscono un diritto separato e discriminatorio per gli arabi di Israele? Disarmo bilanciato?

Insomma, trattativa. E la trattativa riguarda entrambe le parti: e così si capisce anche a cosa serva insistere sul terrorismo e la sua condanna invece che sulla guerra. Anche questa deve essere condannata ma implica riconoscerne l’esistenza, oggi sul campo e al più presto possibile al tavolo di trattativa.

E – mi piace sognare – un bel po’ di caschi blu. Se l’ONU riuscisse a fare qualche gesto e qualche azione, potrebbe perfino timidamente riavviarsi qualche filo in Ucraina: anche per questo le due crisi militari andrebbero tenute separate tra loro. Invece di continuare a ripetere frasi fatte e slogan, tra capi di stato e di governo e, nel nostro orticello, tra partiti di governo e di opposizione finora (ore 15 dell’8/10) ben poco distinguibili tra loro.