Premierato: meglio fare proposte diverse che preparare il referendum…due anni prima!

Con le difficoltà sociali ed economiche in aumento, non si può immaginare una campagna elettorale di quasi due anni. E poi – se davvero ci si arriverà – discutere oggi su proposte diverse farà vincere il referendum domani. Abbiamo appena fatto in tempo a dire che ciò che serve al Paese è una discussione approfondita sulle politiche istituzionali e già possiamo vedere come i maggiori soggetti politici intendono fare a questo proposito.

Quello che colpisce non è la forza con la quale ciascuno di essi ha iniziato a mettere in piazza le proprie tesi. Colpisce – ma non stupisce – l’approccio che stanno scegliendo: è vero che le cose possono cambiare ma è tale la forza della propaganda che rapidamente essa sostituisce il ragionamento e ciascuno rimane inchiodato sulle posizioni di partenza e così via fino all’esito finale.

E’ ovvio che i partiti che esprimono il governo insistano sulla proposta appena approvata. Tuttavia almeno un accenno di discussione, un atteggiamento tale da stimolare – perfino provocare – le forze di opposizione a fare proposte e aprire un confronto, sarebbe stato di una certa utilità. Capisco che questa utilità può venire in mente solo a chi – eventualmente – sia interessato a rafforzare il rapporto piuttosto logorato tra cittadini e politica: però qualche elemento di interesse generale dovrà pure fare capolino, almeno quando si tratta della architettura del sistema.

Invece no. Da Meloni in giù – con la sola eccezione del senatore Pera – solo granitiche certezze sulla bontà e unicità della proposta di premierato e preparazione della sfida finale al referendum.

L’opposizione pare orientata nello stesso senso, con l’obiettivo di cancellare per via di referendum una proposta giudicata molto negativamente (tranne Renzi che già aveva messo nel suo programma elettorale il “sindaco d’Italia”). E suonano le trombe di chi vorrebbe già dare vita ai comitati per il NO. Il solo Calenda insiste perché si facciano altre proposte, riconoscendo che problemi di assetto e funzionamento istituzionale ci sono e vanno affrontati. Gli altri si agitano, si indignano ma non fanno ciò che ci si aspetterebbe: i casi sono due, o si ritiene che tutto vada bene come è attualmente – e certo occorre dimostrarlo – oppure si propone un altro disegno di riforma. C’è una strana aria, come se dinanzi alla iniziativa del governo i partiti che ad esso si oppongono non fossero preparati e non avessero idee e proposte (uguali, diverse ma almeno una…): quanto meno, una proposta di legge elettorale, dopo richiami e bocciature delle Corte Costituzionale- E invece, solo proclami. Mah!

Ci possiamo aspettare qualcosa dal sistema dell’informazione? In un mondo ideale certamente sì. Nella povera Italia di oggi vediamo solo titoli e servizi che amplificano questa corsa al referendum, con la robusta ricerca e richiesta di schierarsi in vista dello scontro.

Insomma, tutti gli aspetti deteriori della politica ridotta a braccio di ferro tra alcuni e tifo sugli spalti per i cittadini sono già in campo.

Contropiede continuerà a seguire questo tema di riforma e ad intervenire nel merito della discussione: non si può sapere se si tratti della “madre di tutte le riforme” [tra i tanti impegni per una sinistra rinnovata bisognerà anche mettere il divieto dell’uso di certe espressioni: mettere le mani nelle tasche, al netto di, né di destra né di sinistra e così via] ma certo è un momento cruciale della vicenda politica e non solo.

Cercheremo di dare conto e di contribuire a ragionare sulle proposte che verranno presentate, perché non è immaginabile rimanga solo quella del governo sulla quale dire i sì e i no del caso.

Occorre iniziare dalla indicazione di ciò che per noi è la posta in gioco.

Il governo sta facendo quello che da tempo la destra dice di voler fare: l’elezione diretta è la chiave del sistema politico, come ha sempre sostenuto da che esiste la Repubblica. Il problema è se questa direzione è da un lato davvero auspicabile e dall’altro se è coerente con la Costituzione vigente. Coerenza, questo è il concetto essenziale. La Costituzione disegna un sistema nel quale c’è un ragionevole equilibrio tra i poteri istituzionali, c’è un “capitano non giocatore” – il Presidente della Repubblica – che svolge una funzione a seconda delle situazioni di arbitro, di suggeritore, di garante, di sollecitatore, ci sono le funzioni di controllo a partire da quella del giudizio di costituzionalità delle leggi ed anche quando necessario dei comportamenti.

I punti deboli stanno altrove: nella funzione ossificata dei partiti; nella scarsa possibilità di confronto con i corpi sociali; nella continua caduta del prestigio del Parlamento sia per gli enormi difetti delle leggi elettorali (vedi alla voce partiti) sia per la debolezza dei governi – di ogni composizione – che marciano per decreti e voti di fiducia; nella carenza di regolazione della attività dei corpi sociali in primo luogo della rappresentanza sindacale e padronale; nella relazione tra Stato e Autonomie scombinata dalla pessima riforma del Titolo V, da quella delle Città metropolitane e dalla critica condizione delle Regioni. E infatti, ad aggravare la questione, il premierato va di pari passo con la autonomia differenziata: e qui ci sono sia la concorrenza aspra tra Salvini e Meloni sia il disegno convergente di rafforzare i sistemi istituzionali nei soli vertici, nazionale e locale.

Se questi fattori sono reali, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio è la soluzione? Lo è per chi pensa che la soluzione debba essere quella dell’aumento del potere di comando del vertice – ma si deve sottolineare che già molti autorevoli commentatori hanno messo in luce le numerose manchevolezze e criticità del progetto Meloni.

Quella elezione diretta ha un altro senso e obiettivo: la rottura dello schema della Costituzione vigente per introdurne uno del tutto differente, un sistema nel quale l’atto forte e unico che si chiede ai cittadini è la consegna di un mandato, corazzato da misure che assicurino una tranquilla maggioranza in Parlamento, e poi per tutta la durata del mandato stare a vedere e giudicare alla fine.

Roba vecchia, non un sistema nuovo. Sì, roba vecchia, perché reagire ad una crisi della rappresentanza, cioè della capacità del sistema politico di interpretare e incrociare positivamente l’evoluzione della società, con l’aumento del potere al vertice è quanto di più vecchio e non efficiente si possa immaginare.

Facciamo solo due esempi. Il primo è la Francia: Macron è presidente già eletto due volte, dispone di solide maggioranze parlamentari, gode di una legge elettorale che tanti vorrebbero anche in Italia, però su tutte le scelte più rilevanti si apre uno scontro durissimo con parti rilevanti della società francese, al punto che quelle scelte vengono fermate e rinviate a momenti migliori. (Tra parentesi: malgrado queste difficoltà, la Francia è e rimane un Paese democratico e ciò vale per tutti quei Paesi nei quali ci sono elezioni dirette. Solo che sono democrazie differenti per storia e tradizioni: le loro sono più robuste delle nostre e comunque diverse).

Il secondo è l’Italia di oggi, nel cui Parlamento Meloni e il suo governo dispongono di una maggioranza addirittura superiore a quella che la legge elettorale che vorrebbero inserire in Costituzione darebbe al vincitore delle elezioni, eppure il governo non è affatto sicuro, ricorre a decreti e voti di fiducia, impedisce ai suoi stessi parlamentari di presentare emendamenti.

Dunque? Appare evidente che altro è l’obiettivo: cambiare l’organizzazione, cioè la sostanza, della struttura democratica italiana. E questa va cambiata – secondo la maggioranza di destra che ha vinto le elezioni – da un lato perché vanno eliminati alcuni poteri vissuti come un intralcio (quelli di controllo, quelli di equilibrio, quelli di partecipazione) e dall’altro perché si supera l’atto di nascita della Repubblica. Non a caso Meloni ha parlato di Terza Repubblica. A parte che in molti ci siamo persi la Seconda, si sente e pesa l’atteggiamento di chi fa bandiera della esclusione dal governo per molti anni e misura la propria azione in termini di ristoro dalle ingiustizie: vale nel campo della cultura, dello spettacolo, della televisione e adesso tocca alle istituzioni che però sono tutt’altra questione. E comunque non sarà inutile ricordare le tante occasioni in cui la destra ha sostenuto governi e politiche, quando governava la Dc con i suoi alleati – e spesso non furono né i momenti migliori né i più tranquilli né i più adatti a far sviluppare civilmente ed economicamente il Paese – e soprattutto quando, dal 1994 in poi, Berlusconi ha portato gli eredi del MSI alla piena assunzione di responsabilità, compresa Meloni ministro (mica male per una underdog, vero?).