La battaglia di Adua

Il 1° marzo 1896 venne combattuta la battaglia di Adua, quella che fu la più grave sconfitta militare patita da un esercito europeo in Africa. La battaglia costò migliaia di vite e fermò per diversi anni l’occupazione di terre di altri popoli nel Corno d’Africa ma, analizzando quelle vicende possiamo riconoscere alcune gravi storture del sistema italiano, dal capitalismo predatorio all’improvvisazione e alla faciloneria, l’imbroglio agli etiopi o forse agli italiani stessi con il “trattato di Uccialli”, la vendita di armi ad altri popoli che poi vennero usate contro i soldati italiani.

Le vicende del colonialismo sotto il tricolore italiano cancellano il mito degli “italiani brava gente”. La volontà di potenza e di dominio di altri popoli fu potente nelle classi importanti italiane e continuò sia con governi eletti che durante il regime fascista.

Alla vicenda di Adua sono particolarmente legato in quanto in passato mia figlia ha svolto un periodo di volontariato sull’acrocoro etiope. Mi raccontò che le venne detto che il primo marzo era festa nazionale e lei chiese cosa rappresentasse la festa apprendendo che si festeggiava la “vittoria di Adua”, ci sono sempre modi diversi di vedere i fatti.

Torniamo a riflettere su quanto le vicende di Adua, e tutto il contesto storico nazionale di quel periodo, ci possono raccontare su quello che è stata ed è la nostra Repubblica.

Cominciamo con un poco di storia. A casa Savoia erano serviti quasi 900 anni partendo con Umberto Biancamano, da una contea tra le montagne della Savoia, per scendere verso Susa, grazie al matrimonio con la duchessa, poi, sfruttando la posizione e gli scontri dinastici,  dopo quasi novecento anni completare l’unificazione del Regno d’Italia sotto la corona sabauda. Dopo un solo decennio dalla proclamazione del Regno d’Italia e pochi mesi prima della presa di Roma ,Giuseppe Sapeto, agente della società di navigazione Rubattino di Genova, creò i confini del primo possedimento italiano ad Assab (Eritrea ). Questa decisione non venne però accettata dal negus d’Etiopia che riprese la baia di Assab.

Ma ormai il neonato Regno d’Italia aveva deciso di essere una potenza coloniale e spese le sue carte nel tentativo di rendere la Tunisia un protettorato italiano, la questione si concluse con quello che venne definito “lo schiaffo di Tunisi” infatti la Tunisia divenne invece protettorato francese e a questo punto il governo italiano si trovò ad indennizzare la società Rubattino con la somma di 104.100 lire per la concessione. Il capitalismo italiano muoveva così i suoi primi passi e  si assumeva il rischio di impresa al fine di ottenerne un guadagno ma, quando la possibilità di guadagno cessò la “bad company” venne ceduta allo Stato.

L’Italia potè così disporre di una base da dove far partire la sua espansione coloniale. Venne quindi  firmato un accordo con il sultano di  Zanzibar ottenendo il protettorato della Somalia, il sultanato era solo una autorità formale non accettata dagli etiopi che consideravano la Somalia come parte del loro regno. Con questa azione il Regno d’Italia “inventò” l’Eritrea che prima era divisa in tre ampie zone: l’altopiano controllato dagli etiopi, la costa del Mar Rosso in parte controllata dagli egiziani e il bassopiano occidentale dove operavano i sudanesi.

Nel 1879 il governo della “sinistra storica”, guidato da Agostino De Pretis, insediò una base nella base di Assab insediandovi un comandante militare che iniziò l’espansione del territorio con un’azione politico-militare occupando la città portuale di Massaua e infine creando il presidio di Saati nell’interno di Massaua. Le pretese italiane si scontrarono subito con le proteste etiopi e poi con le azioni militari quando, nel 1887, gli uomini del ras Alula, per ordine del negus Giovanni IV, attaccarono il presidio di Saati e poi, a Dogali distrussero il contingente italiano di 548 uomini inviato in soccorso, così il presidio venne sgombrato.

Dopo “il massacro di Dogali” il governo del Regno decise di inviare a Massaua un corpo di spedizione di 20.000 uomini che rioccupò il presidio di Saati costringendo l’esercito del Negus a schierarsi nuovamente davanti al presidio. Si arrivò così al “trattato di Uccialli” firmato nel campo del Negus dallo stesso Menelik II e dall’ambasciatore italiano conte Pietro Antonelli,  con il quale l’Etiopia riconosceva al Regno d’Italia sostanzialmente l’area della futura Eritrea. L’accordo comprendeva un imbroglio da parte italiana , infatti l’articolo 17 comprendeva due versioni. La versione in italiano recitava: «Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia consente di servirsi del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia per tutte le trattazioni di affari che avesse con altre potenze o governi.» mentre la versione in amarico differiva: «Sua Maestà il Re dei Re d’Etiopia può trattare tutti gli affari che desidera con altre potenze o governi mediante l’aiuto del Governo di Sua Maestà il Re d’Italia.» In pratica gli italiani era convinti di operare per conto dell’Etiopia rendendola di fatto un protettorato mentre gli etiopi erano convinti che, qualora avessero voluto, avrebbero potuto servirsi della mediazione del Regno d’Italia.

Nel 1894, dopo la battaglia tra l’esercito italiano e quello mahdista sudanese il Regno d’Italia occupò la regione sudanese di Cassala.

Nel frattempo l’Italia continuava nella sua politica di espansione nominando quale governatore dell’Eritrea il generale Baratieri, probabilmente con il retro-pensiero del si va verso una guerra quindi nominiamo come governatore un generale che lui sa cosa va fatto.

Ma i giochetti semantici non potevano reggere a fronte delle azioni militari così, alla fine del 1895 il Negus, che nel frattempo aveva modernizzato il proprio esercito con molte migliaia di fucili moderni e alcuni cannoni forniti dalla Francia, dalla Russia e dal Regno d’Italia, attaccò le truppe italiane penetrate in Etiopia sul massiccio dell’Amba Alagi e pose sotto assedio il forte di Makallè. Mentre era in corso l’assedio il governo Crispi non mancò di intervenire, lo stesso Presidente del Consiglio scrisse più volte al generale Baratieri, facendo leva sul suo senso dell’onore, facendo ricadere  così sulle sue spalle il prestigio della Monarchia.

 Nelle lettere si trovano frasi come:

Non do consigli perché solamente il generale sul luogo può decidere quale debba essere l’azione che a noi meglio convenga”;

Il Governo ti ha mandato quanto hai chiesto. Io aspetto un’altra vittoria… Bada a quel che fai. Ci va dell’onor tuo…”;

“Ricordati che Amba Alagi e Makallè sono due insuccessi militari… e che sono nelle tue mani l’onore dell’Italia e della monarchia”;

“Codesta è una tisi militare non una guerra; piccole scaramucce nelle quali ci troviamo sempre inferiori di numero; sciupio di eroismo senza successo; non ho consiglio da darvi perché non sono sul luogo, ma constato che la campagna è senza un preconcetto che vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualsiasi sacrificio per salvare l’onore dell’esercito ed il prestigio della monarchia”.

Frasi di questo tenore non avevano che una possibile soluzione: l’avanzata dell’esercito italiano contro l’esercito del Negus. A questa pressione emotiva si aggiunse il sentimento di rivalsa degli altri generali italiani. Mentre Baratieri era più attendista, i suoi colleghi sottoposti erano sprezzanti verso le capacità militari etiopi, così l’esercitò italiano, che non conosceva il territorio, marciò in colonne separate su terreni accidentati e senza coordinamento tra di loro verso l’entroterra etiope, fino a giungere nei pressi di Adua alla fine di febbraio. Dove 17.700 i soldati del Regio esercito si scontrarono con circa 100.000 uomini agli ordini del Negus. In una sola giornata si contarono circa 15.000 morti tra entrambi gli eserciti. La conseguenza della disfatta fu il ridisegno dei confini dell’Eritrea e lo spostamento della capitale da Massaua ad Asmara.

Purtroppo la disfatta non fece desistere la sete di potenza imperiale italiana che pur con andamento ondivago e senza una strategia precisa, continuò a far crescere il sogno imperiale e la volontà di conquista di territori che nulla avevano a che fare con il mito risorgimentale dell’unità d’Italia.

Fu così che, per la sua partecipazione alla repressione della rivolta cinese dei Boxer, il regno d’Italia venne ricompensato con la concessione commerciale di Tientsin.

La colonia italiana in Eritrea si espanse con una serie di accordi e piccole conquiste fino ad ottenere la colonia di Somalia.

Nel 1911 ci fu la guerra italo-turca per il possesso della Libia e successivamente delle isole del Dodecanneso, con capitale Rodi. Con gli accordi di pace del 1919, seguiti alla fine della Prima Guerra Mondiale l’Italia ottenne la provincia turca di Adalia, a nord di Cipro, mentre nel 1920, a seguito di un accordo tra Regno d’Italia e Albania, l’isola di Saseno, all’imbocco della baia di Valona, passò all’Italia. Nello stesso periodo gli accordi tra le potenze europee concessero all’Italia il controllo della striscia di Aozou, un territorio semi-desertico nel nord del Ciad e del Sudan ai confini meridionali della Libia e la legazione austriaca di Tientsin venne assegnata al regno d’Italia e accorpata alla concessione italiana.

Tutto questo prima che Mussolini venisse nominato Capo del Governo.

Il governo Mussolini continuò la politica espansionistica dei governi sia della sinistra storica sia della destra liberale. Nel 1924 il territorio della provincia dell’Oltregiuba passò dal Kenya alla colonia della Somalia Italiana grazie ade un accordo con gli inglesi.

Il 2 ottobre 1935 iniziò l’invasione italiana dell’Etiopia che si completò il 5 maggio successivo con l’occupazione di Addis Abeba e la successiva proclamazione dell’Impero il 9 maggio, tutto questo portò alle sanzioni da parte della Società delle Nazioni.

Con il trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 l’Italia perse, tutte le sue colonie tranne la Somalia che venne posta sotto l’amministrazione fiduciaria italiana dal 1950 al 1960 quando, il 1° luglio, venne definitivamente ammainata la bandiera italiana sulle colonie.

Ricapitolando, il Regno d’Italia occupò territori e li rese colonie in tre continenti e in 11 nazioni attuali: Somalia, Eritrea, Kenya, Sudan, Etiopia, Ciad, Libia, Grecia, Turchia, Albania, e Cina. Le colonie durarono per circa 60 anni, dal 1882 al 1947, e l’Italia mantenne il suo dominio, spesso spietato, su diversi milioni di persone, sottoposte all’arbitrio di governatori nominati dal governo italiano. La vicenda delle colonie è un periodo semi-sconosciuto dagli italiani, anche se la toponomastica delle città italiane è piena di riferimenti alle battaglie: via dei cinquecento, via Agordat, viale Cassala, via Massaua, via Dogali, via Macallè, via Derna, via Bengasi, via Giarabub. Gli italiani non discutono del colonialismo nazionale e, quando se ne parla, si fa sempre riferimento al mito degli italiani “brava gente”, che in Africa avevano portato sviluppo e investimenti, spesso con la frase “ ma noi gli abbiamo portato scuole e strade”. Ma la realtà fu tutt’altro: massacri, bombardamenti aerei, uso dei gas (come bene descritto nel libro di Francesco Filippi “Noi però gli abbiamo fatto le strade”), campi di concentramento. Non possiamo dimenticare che, nella sola Libia, gli italiani furono responsabili di circa 100.000 morti su una popolazione di 800.000 un po’ come se in Italia venissero uccisi circa 8 milioni di cittadini. Non dimentichiamo quanto accaduto in Etiopia dove il governo italiano decise che tutto il potere sarebbe stato assunto dalle autorità coloniali, il ministro delle colonie espresse lo sprezzante commento: “Niente poteri a mezzadria”. Sempre in Etiopia, nel 1937, in pochi giorni immediatamente successivi all’attentato da parte di nazionalisti etiopi contro il vicerè Rodolfo Graziani, civili italiani, regio esercito e milizie fasciste scatenarono una rappresaglia indiscriminata che portò alla morte di migliaia di persone. Lo storico italiano Angelo Del Boca parla di almeno 3000 vittime, fonti inglesi parlano di 19.000 morti e chiamano la vicenda “Graziani massacre”, mentre gli etiopi parlano di 30.000 vittime, comunque numeri spaventosi, come dimenticarsi inoltre del massacro avvenuto al monastero di Debra Libanos effettuato per ordine di Graziani dalle truppe del generale Pietro Maletti con l’intenzione di stroncare definitivamente la chiesa copta e, con essa, la classe dirigente etiope. In poche ore il regio esercito massacrò complessivamente 449 tra preti, diaconi, seminaristi, e civili. Per una sorte di ironia i cristiani cattolici italiani fecero fucilare i cristiani copti etiopi da soldati ascari libici e eritrei di religione islamica.