Una terra senza pace: la questione israelo-palestinese

Le guerre portano a schierarsi “senza se e senza ma”, con grossolane semplificazioni. Le Università, come un tempo i monasteri, devono “salvare il sapere dai barbari”, conservare l’equanimità razionale nel racconto dei fatti. Così ha fatto questo meritevole convegno. Resoconto di P. Zinna, con Nota Finale.

Convegno promosso da Università Statale, dipartimento di Studi Internazionali e Scienze Sociali e Politiche.  Articolazione:

  • SESSIONE STORICA
  • Il QUADRO INTERNO
  • QUADRO GEOPOLITICO E DIRITTO INTERNAZIONALE
  • NARRAZIONI E MOVIMENTI
  • RUOLO DELLE UNIVERSITÀ
  • NOTA FINALE DEL REDATTORE

Nell’Introduzione del convegno, la prof. Giunchi (che lo ha organizzato, insieme ai prof. Jessoula e Aureliani) ha evidenziato come il convegno sia una costruzione collettiva di molti studiosi e voglia correttamente inquadrare l’attualità con una visione di giusta profondità storica. Si è rammaricata delle difficoltà incontrate nell’organizzare la sessione su Israele (vedi nota finale). Ha ricordato come la Corte di Giustizia Internazionale abbia preso in carico le questione, su istanza del Sudafrica. Ha preannunciato che nel pomeriggio si sarebbe trattata la strategia di comunicazione dei media e aspetti quali gli slogan di mobilitazione e le azioni di delegittimazione dell’avversario.

SESSIONE STORICA

Aprendo la sessione storica, la prof. Saresella è partita dal 1997 (blocco sostanziale dei negoziati verso la pace) ampliando la visione al mondo intero: complessi rapporti fra Egitto e Stati Uniti, crisi economica del 2088, accordi fra Unione Europea e Israele. Occorre andare oltre l’evento singolo per far conoscere il lungo cammino percorso che la scienza storica ha il dovere di mettere in evidenza.

La prof. Rioli (in collegamento da Univ. Modena) ha parlato dei periodi iniziali della questione israelo – palestinese. E’ partita dal confronto dei dati di popolazione e superficie di Israele, Palestina e Gaza evidenziando il peso quantitativo dei rifugiati. Ha individuato le radici di una nuova centralità della questione mediorientale fin dal periodo degli sforzi di modernizzazione dell’Impero Ottomano (Tanzimat). Nei decenni successivi le identità nazionali siriane e libanesi si formano per la prima volta a Damasco e a Beirut, entro il quadro della “Grande Siria” ottomana.

Intanto in Europa emerge l’antisemitismo moderno (caso Dreyfus) e T. Herzl pubblica “Der Judenstaat” (libro in cui proponeva ai governi europei l’idea che si creasse uno stato ebraico) e nasce il sionismo come movimento politico. La questione ha poi uno sviluppo con la Prima Guerra Mondiale, quando la Dichiarazione di Lord Balfour (ministro degli esteri di Gran Bretagna) promette agli ebrei una “casa nazionale”. In guerra (1917) il maresciallo inglese Allenby occupa Gerusalemme – la Palestina resta per tre anni sotto occupazione militare inglese, poi all’Inghilterra viene affidato un mandato che continuerà fino al 1948. Emergono nuove strutture politiche e sociali (diverse dai millet ottomani) e si producono i primi scontri fra comunità. Vi è una significativa immigrazione ebraica, disordini nel 1929 e soprattutto una rivolta fra il 1936 e 1939, per questioni legate alla proprietà della terra. Nel frattempo la politica inglese, col Libro Bianco, diventa contraria ad una consistente immigrazione ebraica.

Svolta successiva nel 1946 quando, anche dopo un tragico attentato ebraico al King David Hotel (quasi 100 morti), la Gran Bretagna intende lasciare il Mandato e rimette la questione alle Nazioni Unite. Viene costituito un “comitato speciale”  che discute due soluzioni alternative: stato unico ebraico e arabo, oppure due stati separati. La seconda prevale e viene espressa nella dichiarazione del 29 novembre 1947. Successivamente Israele proclama la sua indipendenza (maggio 1948), scoppia la prima guerra arabo israeliana, vinta dagli israeliani, più preparati, che si aggiudicano più terre rispetto a quanto inizialmente previsto (Galilea Occidentale, corridoio di Gerusalemme. NdR ) . Si produce la Nakba (catastrofe) cioè l’espulsione di 700.000 arabi dalle terre rimaste allo stato di Israele. I palestinesi reagiscono portando per molti anni la conflittualità entro Israele. Nel 1967 scoppia la guerra dei Sei giorni a seguito della quale Israele occupa Sinai, Cisgiordania e alture del Golan e si produce una seconda emigrazione araba (Naksa). Con il 1973 (guerra dello Yom Kippur) gli egiziani riescono a recuperare parzialmente il Sinai.

Viene creata l’UNRWA, organizzazione ONU specificamente orientata all’assistenza ai profughi palestinesi e queste vicende ne fanno crescere il ruolo (i rifugiati palestinesi fino agli anni ‘80 sono prevalentemente stanziati in Libano). Dopo questi anni si manifestano nuovi elementi:, vittoria elettorale del LIKUD in Israele, massacro di Sabra e Chatila in Libano, inizio degli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Poi, seguono la prima Intifada “delle Pietre” (rivolta degli arabi entro Israele), la nascita di Hamas da radici entro la Fratellanza Musulmana, gli accordi di Oslo 1 e 2 …

Segue il prof Graglia (Univ. Milano, autore anche del testo “Il confine innaturale” che ricostruisce appunto i complessi rapporti fra i due popoli), che ci ha parlato degli ultimi trent’anni.   Ricorda come il concetto di separazione fra i due popoli sia già stato teorizzato da Jabotinsky nel 1921 (“il Muro di Ferro”). Parla poi degli accordi di Oslo dei primi anni ‘90, rilevando come essi siano sempre stati indeboliti dalle “arrière pensées” dei contraenti. Gli accordi di Oslo  si sviluppano nel clima di fine della guerra fredda, distensione, caduta del muro, ma il confronto ideologico fra Israele e i Palestinesi non si stempera allo stesso modo.

In entrambi i popoli non tutti erano disposti ad accettarne la logica. In Israele, dopo il 1967 e poi soprattutto fra 1978 e 1987, si è manifestato un sentimento di messianismo ideologico, soprattutto fra gli ebrei di recente immigrazione che arrivano in prevalenza dalle terre dell’URSS: Si tratta di 90.000 coloni in Cisgiordania, 4000 a Gaza, 120.000 a Gerusalemme Est. Sono anche gli anni nei quali va al potere, per la prima volta, il Likud.
Anche fra i palestinesi, in questi anni, si vedono orientamenti nuovi:  i giovani, in particolare, addossano alla dirigenza dell’OLP la colpa di una situazione insoddisfacente: “la vecchia dirigenza che ha fallito”. Emerge l’islamismo politico, nasce Hamas a Gaza e Israele inizialmente la guarda con un certo interesse. La reazione palestinese si evidenzia nella “prima Intifada, delle pietre”, nata da un evento casuale (un grave incidente stradale), ma poi portata avanti per anni. Arafat, inizialmente è sorpreso dagli avvenimenti, gli stessi coscritti israeliani sono in difficoltà di fronte ad una forma di lotta non convenzionale.

Sono soprattutto gli USA (presidente Bush padre, con il segretario di stato J. Baker) a spingere per gli accordi di Oslo. In realtà, gli accordi hanno istituito territori a giurisdizione mista: civile e amministrativa affidata alla nuova  Autorità Nazionale Palestinese, di difesa e sicurezza israeliana. Ma i territori di giurisdizione ANP non godevano neppure di continuità territoriale. Più precisamente, la geografia concordata come provvisoria a Oslo e poi consolidatasi nel tempo, istituisce tre tipi di aree in Cisgiordania:  A città a piena autonomia palestinese, non contigue, B amministrazione palestinese ma sicurezza affidata agli israeliani, C a intero controllo israeliano.

Perché il processo di Oslo non è andato avanti (proposte di Camp David, 2000)? Se ne è fatto carico ad Arafat ma in realtà le proposte proponevano che lo Stato Palestinese da riconoscere non avesse autonomia di decisione né in politica estera né in temi di difesa – non permettevano il ritorno dei profughi del 1948 – mantenevano il possesso di Israele su tutta la valle del Giordano: lo Stato Palestinese avrebbe avuto una situazione paragonabile a quella dei Bantustan sudafricani durante l’apartheid. Arafat non poteva che rifiutare.

IL QUADRO INTERNO

La seconda sessione è stata coordinata dalla prof. Resta (Univ. Milano), primo discussant la giornalista P. Caridi.  che ha esaminato alcuni aspetti di Hamas. Prima domanda: Hamas è stata creata da Israele? No, negli anni ’70 – ‘80 Israele lo ha voluto strumentalizzare perché organizzazione “islamica” non palestinese laica come ad es. Al Fatah o l’OLP. Nel 1988 – ’89 ci furono probabilmente incontri con Peres e Rabin.

Hamas nasce dall’ Ikwan, branca palestinese della Fratellanza musulmana, viene formalmente fondata nel 1987 ma in realtà operava già dal 1982. Il suo primo leader fu lo sheikh Ahmed Yassin ma a fine anni ’80, dopo un’ondata di arresti, emerge come leader Mūsā Muḥammad Abū Marzūq che tende a ribilanciarne il radicamento sviluppandola anche all’estero. Ma Hamas è un partito politico o un gruppo di terroristi? E’ un ente politico che ha usato il terrorismo. Del resto anche le organizzazioni laiche palestinesi in passato hanno usato il terrorismo. (si definisce “terrorismo” la forma di lotta che colpisce vittime civili). Dopo il 2005 e fino ad oggi, Hamas pone fine agli attentati suicidi e decide di partecipare alle elezioni. Israele non ostacola particolarmente Hamas, anche se questo non modifica la sua carta fondativa (che prevede l’obbiettivo di cancellare Israele N.d.R.).  Nel 2006 Israele fa votare gli abitanti arabi di Gerusalemme est (unica occasione) e così favorisce la vittoria di Hamas. L’embargo verso Gaza viene istituito dopo la vittoria elettorale e non prima (c’è una certa distorsione della verità da parte di Israele).

Dopo il 2006 i territori palestinesi risultano, come è noto, divisi: Cisgiordania all’OLP, Gaza da Hamas. Dentro la stessa Hamas, da allora e fino ad oggi si vedono due linee diverse circa l’accettazione del confine alla “linea verde” (cioè quello del 1948) e circa la possibilità di riconoscere l’ANP. Gli USA vogliono che sia l’ANP ha gestire le macerie di Gaza dopo la fine della guerra. Ma come può essere possibile? solo facendo entrare Hamas nell’OLP. Nel 2014 c’è stato un tentativo simile di costituire un governo di unità palestinese centrato su Barghouti e i “neutri” negli scontri civili del passato. Oggi si riprova a metter insieme Al Fatah e Hamas. Gli attacchi di Israele ad UNRWA sono probabilmente volti anche a disturbare questo processo.

In Europa ci si augura l’emergere di un “Mandela palestinese” che si vede in Marwan Barghouti. Ma lo Stato di Palestina non ha il monopolio dell’uso della forza, non ha il governo amministrativo – proteste pacifiche nei territori vengono disturbate e spesso represse da Israele. Non si possono applicare in Palestina le categorie della politica nella democrazia.

E’ intervenuto poi Basem Karma (Univ. Milano) che ha parlato degli orientamenti nella società palestinese di oggi. Ha ricordato che dopo Oslo fra i giovani palestinesi è cresciuta la sfiducia ed il radicalismo. L’ANP basa la sua influenza, che è ancora forte, su una pratica di diffuso clientelismo e la gestione dei posti di lavoro, in particolare nell’apparato di sicurezza. In Cisgiordania ci sono 80.000 poliziotti, quasi il triplo che in Italia in proporziona agli abitanti. Il budget della sicurezza assorbe il 30% degli aiuti, più che sanità + educazione + agricoltura. Come sono possibile dunque le violenze dei coloni israeliani e dell’IDF? perché la sicurezza ANP non difende i palestinesi, li reprime: nel 2021 c’è stata repressione diretta, oggi la sicurezza ANP si attiva contro le mobilitazione per Gaza. Al Fatah coincide di fatto con ANP, gli altri movimenti laici sono ormai molto piccoli. Comunque Al Fatah conserva un prestigio storico, un tempo conteneva al proprio interno tutti, dai maoisti agli islamici. Nelle elezioni universitarie vince Hamas, per le ragioni già dette.

Anche negli stati arabi, i palestinesi sono repressi. C’è anche da ricordare la popolazione araba rimasta in Palestina nel ’48, che ancora non gode della piena cittadinanza israeliana. In Occidente il mondo palestinese supera il partitismo, si pone la questione di un organismo unitario del movimento – ma ancora manca un organismo capace di portare progettualità unitaria. I gruppi armati sono di tendenze plurali, ma sono ovviamente molto chiusi.

La chairman prof. Resta sottolinea opportunamente l’esistenza di “tante Palestine” e chiama a parlare la prof Mazzuccotelli (Univ. Pavia) su diaspora palestinese e situazione dei rifugiati.  Hanno diritto al termine “rifugiato” i discendenti per via patrilineare di chi, godendo della cittadinanza mandataria (assegnata a suo tempo dal Mandato inglese) abbia lascito Israele far il 1948 e il 1967. Per assisterli è nata l’UNRWA. Essa ne riconosce oggi 5,6 mio, di cui 1,6 nei campi. Le loro vicende sono sempre connesse con quelli dei paesi di residenza In Libano ad esempio sono passi rilevanti la fine del controllo sui campi della Sicurezza libanese (’69), il massacro di Sabra e Chatila (’70), l’arrivo dei siriani (’86), il loro ritiro (2005). Le scelte del regime siriano nella politica dei rifugiati, altro esempio, non possono essere inquadrate in una semplice interpretazione binaria. Per tutti i rifugiati resta comunque centrale il tema del “diritto al ritorno” nel paese lasciato nel 1948, che resta uno dei nodi più critici per ogni ipotetico progetto di pace.

Segue l’intervento (online) del prof. Arturo Marzano sulla politica interna israeliana. Egli pone in luce un progressivo spostamento a destra della politica israeliana, attraverso diversi passi successivi. La fine della guerra del 1948 lasciava ai palestinesi il possesso di parti significative della Palestina storica, ad esempio Hebron e Gerusalemme est. Buona parte di queste terre vennero poi occupate da Israele dopo la guerra “dei sei giorni” nel 1967. Il nome dato alla guerra è interessante , in Israele questa guerra si chiama così perché la si è voluta accostare al racconto biblico della creazione del mondo in sei giorni. Infatti in quel periodo cominciano a manifestarsi in Israele movimenti religiosi integralisti. Con il 1982, in coincidenza con la fine dell’occupazione del Sinai, nasce una destra radicale violenta, che realizza per esempio il massacro di Hebron strage perpetrata dal colono Baruch Goldstein contro fedeli musulmani in preghiera entro una moschea. Nel 1995 un altro estremista religioso, Yigal Amir, assassina il primo ministro Rabina. Con l’arrivo al potere di Netanyahu, nel 2009, la destra israeliana diventa molto più identitaria, si riallaccia alla tradizione del “revisionismo sionista” della prima metà del ‘900 così da poter essere definita “neorevisonista”. Entrano al governo partiti suprematisti e razzisti, si lascia mano libera ai coloni in Cisgiordania per compiere violenze e aggressioni contro i palestinesi. Likud e i partiti ultraortodossi ebraici trovano l’accordo anche per fatti finanziari.

Viene data la parola alla dr.ssa Albanese, UN rapporteur per i diritti umani in Palestina. Essa esordisce dicendo che nessuna disciplina scientifica è “innocente”, il diritto internazionale viene usato dalle parti come arma nell’ambito della disputa israelo-palestinese. Ci si trova là in una situazione di ingiustizia foraggiata dall’Occidente. Si discute oggi sulla correttezza nell’uso della parola “genocidio” ma, a parere della relatrice, essa, secondo la Convenzione che ne definisce l’uso, non deve necessariamente essere limitato al ricordo della Shoah. Comunque, in ogni caso, un crimine precedente (7 ottobre) non può in alcun modo giustificare un crimine successivo.
Israele si sforza di distruggere ogni traccia di vita a Gaza, dopo un assedi già illegale, ha occupato i 5/6 del territorio, ha causato 1.200.000 sfollati. Il 70% delle vittime sono donne e bambini, ma questo non è strano: il 50% della popolazione di Gaza ha meno di 18 anni, il 40% ne ha meno di 15. Tutto questo è uno stravolgimento del diritto internazionale. Sono stati bloccati gli aiuti umanitari internazionali, Israele sta bloccando viveri, prodotti farmaceutici, carburanti. A fronte dei 150 ostaggi detenuti illegalmente da Hamas fin dal 7 ottobre, Israele tiene in carcere senza accuse precise 4000 palestinesi, di cui 1000 da prima del 7 ottobre. Il regime, a Gaza e in Cisgiordania, è una dittatura militare. Si può essere perseguiti per essersi radunati in più di dieci persone, per qualunque ragione. Si dovrebbe invece porre fine al regime di regole differenziate per la sicurezza fra israeliani e palestinesi.

Per venire al mio ruolo nell’ambito del mandato ONU, ricordo che, se si cerca la pace, si deve avere il coraggio della  verità. Il mio mandato ufficiale ONU riguarda le violenze commesse da Israele nei territori occupati ma io mi sono occupata anche di comportamenti dell’ANP e di Hamas. Nel mio ruolo ho avuto 7 predecessori in 30 anni, che hanno potuto anche visitare i territori stessi. Tutto è cambiato nel 2007, quando il mio predecessore, prof. Richard Hawke, statunitense, è stato arrestato e deportato fuori dai territori. Io non ho mai potuto accedervi, nel 2023 sono anche stata dichiarata persona non grata. Israele non permette lo svolgimento del mandato ONU, fin dal 2007 Io cerco comunque di svolgere il mandato, tenendo rapporti con ONG israeliane ma, anche così, dopo il 7 ottobre le difficoltà sono molto accresciute, l’atteggiamento è cambiato. . La verità è che l’infanzia palestinese vive sotto occupazione. Gaza è stata posta sotto embargo nel 2007, da allora e fino al 7 Ottobre sono morti per violenze 5000 palestinesi, di cui 1200 Bambini. Non si può giudicare con lo stesso metro Israele ed Hamas, sarebbe come aver giudicato con lo stesso metro lo stato e le Brigate Rosse.  

QUADRO GEOPOLITICO E DIRITTO INTERNAZIONALE

Nell’ambito di questa sessione la prof. Carinci  (Chairman, Univ. Milano) ha chiamato a parlare il prof. R. Redaelli (Univ. Milano Cattolica)sul contesto regionale e mondiale.

Il professore parte dalla centralità degli “accordi di Abramo” nel quadro regionale. Dopo il 2003 (guerra Iraq) in Medio Oriente si sono visti significativi successi dell’Iran, nell’Iraq stesso, in Siria, in Libano, nello Yemen. Gli accordi nascono quindi in uno spirito di reazione contro l’Iran ma scontano fin dall’inizio alcune debolezze, prima di tutto la loro natura di reazione a quanto già avvenuto. Sono caratterizzati dalla assenza del tema “Palestinesi” e naturalmente dei palestinesi come interlocutori riconosciuti. Gli avversari, in particolare gli Houti, hanno buon gioco ad attaccarli con sistemi di lotta asimmetrici. Minacciare e rendere più costosi i traffici nel Mar Rosso costa infinitamente meno (in denaro, uomini, tecnologie necessarie) che “difendere” i traffici nel Mar Rosso. (qualcuno scherzando ha detto che “dietro gli Houti ci sono i Lloyds di Londra”, che guadagnano sul rincaro di noli e assicurazioni per le navi che percorrono quella via ..) In sintesi, un sostanziale fallimento.

I democratici USA sono in difficoltà nel seguire la tradizionale linea di completo appoggio ad Israele. Il presidente Biden legge con preoccupazione sondaggi che mostrano uno scivolamento verso Trump del supporto di minoranze quali i musulmani USA ed i neri, tradizionali pilastri dei Democratici. La Russia osserva compiaciuta gli sviluppi, che le danno vantaggi in Ucraina ma anche in Siria e nel Sahel. La Cina, per ostilità verso gli USA, diventa man mano più favorevole ai palestinesi, andando persino contro i suoi interessi commerciali.

L’Unione Europea si è preoccupata prima di tutto di mostrare un fronte comune, nel quale una o due persone parlano per tutti, in particolare l’alto commissario per la politica estera. Ma le gelosie fra gli stati non si sono spente e in tal quadro si è stati inefficaci.

Il successivo speech della prof. Di Peri (Univ. Torino, on line) si è soffermato sulla differente attitudine verso gli “accordi di Abramo” dei governi arabi e delle piazze arabe. Le pubbliche opinioni sono state risolutamente critiche e hanno dato luogo a manifestazioni contro gli accordi. Gli stati arabi ed in particolare i paesi del Golfo li hanno visti con interesse anche come prospettive di commerci ed integrazione a fronte della futura prevedibile caduta dei ricavi da petrolio e le intrinseche fragilità delle loro economie.

Nel frattempo si sono determinati anche eventi esterni in parte inaspettati come il ravvicinamento fra Iran ed Arabia Saudita. Negli anni si sono avute rivolte e disordini interni, pandemia, guerra in Ucraina e crisi del grano, crollo del turismo e dei relativi introiti in Egitto.

In Libano, gli scontri non si sono limitati alla zona del Sud (Bekaa, Sidone). Israele diffonde dichiarazioni incendiarie contro Hezbollah, che al contrario le assorbe con notevole pragmatismo. Ma il Libano patisce anche una perdurante crisi economica, con dichiarazione di insolvenza nel 2021.Non si riesce a trovare un accordo per eleggere il Presidente destinato a succedere all’uscente Michel Aoun, né il nuovo Governatore della Banca Centrale. L’80% dei libanesi vive in povertà. Nel Sud gli scontri fra Israele ed Hezbollah continuano ed Israele ha usato munizioni al fosforo bianco, in violazione del diritto internazionale.

Una piccola speranza nasce dalla notizia di trattative tra Israele ed Hezbollah per la definizione di confini marittimi, cui potrebbe seguire la delimitazione di confini terrestri condivisi.

Il successivo relatore prof. Pedrazzi (Univ. Milano) ha affrontato l’argomento dal punto di vista giuridico. Rileva che presso la Corte di Giustizia Internazionale sono stati incardinati tre procedimenti sulla questione:

  1. nel 2004, in occasione della costruzione del Muro intorno ai territori. E’ stato preso in esame il comportamento di Israele in Cisgiordania e Gerusalemme Est. La Corte ha emesso un parere non vincolante, dichiarando contraria al diritto internazionale la costruzione del muro.
  2. questione sollevata recentemente dal Sudafrica contro Israele, con accusa di genocidio a Gaza
  3. questione sollevata da Nicaragua contro Germania per complicità in genocidio, perché non ha interrotto le forniture di armi ad Israele nonostante la pronuncia provvisoria della Corte, del 26 gennaio, sul caso 2.

La pronuncia provvisoria del 26 gennaio non  è ancora una sentenza ma fa alcune prime affermazioni: “è probabile” che le accuse di genocidio abbiano fondamento  e meritino di essere discusse in giudizio – nel frattempo, Israele è chiamata a prendere tutte le misure necessarie perché il genocidio paventato non si concretizzi. La sentenza provvisoria è stata emessa anche con l’accordo del giudice israeliano.

Per completare il quadro interpretativo, a questo punto, occorre definire il concetto di genocidio: è da limitare alla sola Shoah? Chi per primo lo definì (R. Lemkin) ne aveva un concetto ampio, non limitato agli atti di distruzione fisica di un popolo ma anche agli episodi di distruzione economica e culturale. La convenzione del 1948 che ne fece un preciso oggetto di diritto internazionale, lo limitò ai soli atti di distruzione fisica. La definizione però è già stata applicata ance a cosai diversi: l’holodomor in Ucraina, le stragi in Ruanda, i massacri in Cambogia, i fatti di Srebrenica, se ne parla anche in relazione ai massacri degli armeni nel 1915. Si può affermare dunque che ricadono sotto la categoria fatti molto diversi, nulla impedisce che vi ricadano anche i fatti di Gaza. In relazione alla convenzione del 1948, si deve però approfondire se sussiste, in chi lo perpetra, un dolo specifico, cioè la volontà di commettere tale tipo di crimine. Attendiamo la pronuncia della C.I.G.. In ogni caso appare palese che si tratti almeno di crimini di guerra e contro l’umanità.

La prof. Meloni (Univ. Milano) ha osservato che i giudizi delle Corti internazionali si sono già avuti, ma la loro inefficacia è dovuta al fatto che non ne derivano immediate conseguenze giuridiche. Ha poi illuminato la differenza fra la Corte Internazionale  di Giustizia, organo delle Nazioni Unite dal 1945 che opera nei confronti degli Stati e la Corte Penale Internazionale, fondata nel 2002 in base allo Statuto di Roma, indipendente dalle Nazioni Unite e destinata a colpire i singoli, se colpevoli di crimini internazionali.

L’esigenza di un giudizio internazionale contro crimini commessi da singoli (in ipotesi sia di Israele che di Hamas) era già emersa in occasione della Operazione “Piombo Fuso” su Gaza (2008 – 2009), come evidenziato dal successivo rapporto Goldstone. Ma il Procuratore Capo Luis Moreno Ocampo decise nel 2012 di non occuparsene, a causa dell’incerto status della Palestina a livello internazionale. La questione è stata definita nel 2015, riconoscendo alla Palestina la condizione di Stato ai fini della CPI. Nel 2021 perciò sono partite indagini in merito alle attività sia di Israele che di Hamas a partire dal 2014.

È poi intervenuto Moni Ovadia (uomo di spettacolo e scrittore) trattando dell’atteggiamento della società israeliana rispetto alla terra di Palestina. Ha ricordato come Israele sia nato nel 1948, con l’appoggio di Stalin in funzione di contrasto alla Gran Bretagna allora potenza mandataria. Ma nel 1956 gli Israeliani, con un completo cambio di allineamento geopolitico, furono al fianco di Francia e Gran Bretagna nella guerra di Suez, intrapresa da quelle nazioni per contrastare la nazionalizzazione del canale e poi fermata dall’ostilità degli USA: Ha ricordato anche che Israele non ha una Costituzione scritta, che definirebbe i confini, per cui ogni tendenza, nella società, può avere in merito, la sua credenza. Non c’è dunque un criterio incontrovertibile per decidere se chi si è insediato in Cisgiordania abbia creato “colonie” illegali oppure “insediamenti” legittimi.

In questo ambiente, tipicamente, gli ebrei, recenti vittime della Shoah, diventano vittimisti e ritengono e dicono di subire soprusi in Palestina, quando magari ne sono i perpetratori. Tendono a non rispondere alle argomentazioni. Gli ebrei negano ai Palestinesi il diritto di esistere come popolo. In questa costruzione mentale, trovano sistemazione la etnogenesi leggendaria del popolo ebraico, la costruzione a posteriori di uno Stato di Israele dal Giordano al mare, il “manifest destiny” per il quale la terra di Israele sarebbe stata assegnata da Dio. Interessante notare che gli ultraortodossi non sono affatto sionisti. Per loro, infatti, tutta la Terra è di Dio e sarebbe blasfemo rinchiudere il diritto di Israele entro i confini definiti di uno stato (la Terra sarà tutta quella che Iddio ci assegnerà). In questo quadro si deve leggere anche l’episodio della lotta condotta da Ben Gurion contro lo yiddish, lingua tradizionale ma che viene da lui giudicata “simbolo della nostra inferiorità”, lingua di borghesie contaminate dall’ibridazione con le società non ebraiche, e quindi inadatta al nuovo stato sionista.

NARRAZIONE E MOVIMENTI

In questa sessione, coordinata da prof. Mazzuccotelli (Univ.Pavia), è intervenuto il prof. Teti (Univ. Salerno) sulle tendenze nelle opinioni pubbliche israeliane e arabe. Per Israele, osserva che, in generale, quando partiti e movimenti “estremi” vengono inclusi nelle dinamiche parlamentari e governative, generalmente moderano i propri toni. L’atteggiamento aggressivo nella pubblica opinione scende e sale in dipendenza degli attacchi portati dalla resistenza palestinese.

Nell’atteggiamento degli stati arabi, c’è stato un significativo cambiamento. Nel 1973 si è usata fortemente l’arma energetica. Al contrario oggi sembra attarsi una strategia diretta alla smobilitazione di massa. I governi arabi rischiano infatti che la mobilitazione delle loro opinioni pubbliche possa rivolgersi contro di loro.

Il percorso verso la pace richiederebbe tre fasi: una prima, negativa, di fine del confronto armato, un secondo di costruzione di reciproca fiducia fra gli interlocutori, la terza ed ultima, l’effettiva discussione dei temi di controversia. Rimandare sine die i temi controversi, come si è fatto, non è efficace e tutti lo sanno. Anche gli attori internazionali non usano gli strumenti che avrebbero, ad esempio per promuovere i diritti umani. Al loro rispetto potrebbero essere vincolati gli aiuti. Ad Israele si potrebbe ricordare che i diritti umani o sono di tutti o non ci sono per nessuno.

Il successivo contributo del prof Colombo (Univ. Milano) ha riguardato la posizione delle società occidentali. Noi non siamo terzi innocenti, è stato detto. Infatti gli stati democratico-liberali sono stati protagonisti di guerre ingiustificabili. La seconda invasione dell’Iraq è stata giustificata da informazioni false, ma i politici che le hanno diffuse non sono stati sanzionati, hanno potuto godere della certezza dell’impunità. Si è giunti al paradosso che Blair nel 2077 è stato indicato anche dall’ONU come inviato per il Medio Oriente. Gli irakeni invece sono stati definiti “terroristi” ed invasi da USA e GB.

Oggi gli organismi non statuali che ricorrono alla violenza sono definiti “terroristi”, ma è una evoluzione degli ultimi anni. La Resistenza, con questo criterio, oggi lo sarebbe, ma il giudizio era diverso negli anni fra il 1945 ed il 1990.

C. Della Negra (giornalista di Orient XXI Italia, esperta di Medio Oriente) nel successivo speech, ha invitato a prendere le distanze dalla rappresentazione mediatica, che è oggi informazione di guerra, non equanime, che rappresenta la situazione come secca, binaria (“buoni e cattivi”). Ricorda ad esempio che solo ai giornalisti embedded è permesso oggi l’accesso a Gaza. Osserva poi come già nella scelta dei termini ci siano manipolazioni: se si dice “conflitto” si presenta un confronto alla pari, non così se ci parla di “colonialismo”. Si noti anche i soldati israeliani vengano “uccisi” mentre Hamas e Palestinesi “muoiono” (come se fosse evento esterno). Si utilizza anche selettività nel definire quali notizie presentare. Così si fa giustificazione delle asimmetrie e si lavora per l’allontanare le opinioni pubbliche dal mobilitarsi Sul concetto di terrorismo già si è detto. Le IDF usano anche la diffusione di veri e propri falsi, quali “i bambini decapitati il 7 ottobre”, “l’ospedale di Al Shifa base di Hamas”. Si intende così costruire la rappresentazione di un vero e proprio “asse del Male” contrapposto all’Occidente. Ci si deve anche interrogare su quali rappresentazioni mediatiche si stiano costruendo su altri popoli.

L. Belhadj (giornalista freeelance) ha illustrato l’atteggiamento “orientalistico” prevalente nel punto di vista europeo fino ad oggi. L’arabo è visto come lascivo e venale, “a bordo di cammello”. mentre l’Occidente è il soggetto attivo nelle relazioni. Ciò avviene anche perché nelle redazioni europee non si è tutelata la “diversity” che darebbe punti di vista più articolati. In questo modo si spinge ad una “deumanizzazione” dell’altro.

La Prof. C. Fiamingo (Univ.Milano) ha ricordato vicende relative al Sudafrica: l’apartheid, la costruzione delle Bantu Homeland, la “de-sudafricanizzazione” dei neri. Ricorda in particolare la vicenda del pass di Nelson Mandela, quel cosiddetto passaporto che permetteva di passare i confini dei bantustan.Riorda anche la vicenda della Commissione di verità e riconciliazione, ponendo degli interrogativi. Infatti la commissione ha ottenuto buoni risultati in termini di pace sociale nel paese, ma ha limitato la completa definizione dei fatti e delle responsabilità del periodo precedente.

il Prof T. Aureliani (Univ. Milano) ha parlato dei movimenti di mobilitazione conseguenti ai fatti del 7 ottobre ed alla reazione israeliana, notando come essi siano più deboli e tardivi che in situazioni analoghe.

RUOLO DELL’UNIVERSITA’

Nella sessione finale G. Beretta (Osservatorio Permanente sulle armi leggere) ha rilevato la criticità per l’Università rappresentata dall’accettare finanziamenti da Leonardo, principale esportatore italiano di armi. e ne ha discusso le implicazioni.

Nel contributo finale il prof Cornelli (Univ. Milano) ha espresso soddisfazione perché l’Università è comunque riuscita a tenere il convegno, nonostante le interferenze. Ha discusso poi il concetto di “pace giusta” osservando come possa essere contraddittorio. Non esiste infatti una giustizia assoluta, riconosciuta da tutti gli attori in campo. Occorre dunque perseguire, sul breve periodo, quel tanto di giustizia che è possibile realizzare con lo scopo di fare pace. Diversamente non si otterrà né giustizia né pace. Pone alcuni obbiettivi concreti da perseguire per l’Università:

  • l’uso di un linguaggio di pace e il rifiuto del linguaggio bellico
  • la difesa della libertà accademica, da usare nel fare ponti con gli studiosi di Russia, Cina, Israele
  • non prendere posizione “contro o a favore” ma promuovere il disarmo.

Chiude infine annunciando il prossimo avvio di un dottorato di ricerca dedicato agli Studi sulla Pace.

NOTA FINALE DEL REDATTORE

Questo testo, fino a questo punto, contiene un resoconto del convegno della Università di Milano. Nel redigerlo, per quanto ho potuto, ho cercato di mantenere una corretta rappresentazione di quanto detto, senza esprimere opinioni personali. Sento però la necessità di aggiungere questa NOTA che, al contrario, non è oggettiva ma esprime il mio pensiero, del quale, ovviamente mi assumo l’intera responsabilità.

La professoressa coordinatrice, con signorilità, non ha voluto parlare delle pressioni esterne che ci sono state per non far svolgere il convegno e che in particolare hanno reso difficile lo svolgimento della sessione sulla società israeliana, ma le pressioni ci sono state.
Non posso che sottolineare che la missione dell’Università è quella di coltivare il sapere, con la correttezza e l’obbiettività possibile (anche se, certo, non neutrale, come ci è stato insegnato). Qualunque azione tesa ad impedire un lavoro di studio è sbagliata e criticabile. Qualunque azione per “non far parlare” questo e quello è una prepotenza da rigettare.

Sono però costretto a rilevare quanto segue:

  • Studenti dell’Università di Napoli hanno impedito lo speech del direttore di Repubblica, Molinari. I commentatori dei media hanno unanimemente condannato l’azione, si è attivato persino il Presidente della Repubblica, per deprecarla – giusto, è stata azione sbagliata.
  • Il giorno del convegno (per tacere delle pressioni precedenti) un  gruppetto di sedicenti “Amici di Israele” e “Pro Israele” si è radunato davanti alla sede del convegno, con lo scopo di impedire il contributo di alcuni relatori (Albanese, Ovadia)
  • Il Corriere delle Sera, invece di deprecare questo tentativo (fortunatamente andato a vuoto) ha dedicato ai fatti un articolo nel quale si riporta solo la voce del Litta Modignani, animatore della contestazione e schierato sulle posizioni più estreme di sostegno all’Israele di Netanyahu.

Oggi il sistema dei media in Italia non agisce come “libera informazione” ma come megafono dei diversi poteri prevalenti su questo e quell’argomento. Peggio, esercita l’ipocrisia moralistica contro gli oppositori e a favore dei potenti.